STORIA E STORIE di

 Il bambino nel vento

Domenica 26 Gennaio 2014
 “Ad Auschwitz c’era la neve e il fumo saliva lento…”, cantava nel 1966 l’Equipe 84 un complesso beat di successo che era diventato popolare con “Io ho in mente te” e “29 Settembre”, due canzoni col marchio di Battisti. Amore, vecchio o nuovo, ma sempre amore. Questa canzone era diversa, parole di Francesco Guccini, titolo originale scartato dai discografici: “Canzone del bambino nel vento”. Era il lato B di “Bang Bang” traduzione in diretta di una hit americana di Cher e del marito Sonny. Il disco sbancò le classifiche, finì nei juke box e sui giradischi nelle feste in casa, il retro aveva un ritmo lento, si ballava guancia a guancia come si usava allora, sulla mattonella, mano nella mano, sigaretta penzolante dalla labbra e ragazzine coi capelli cotonati. Quello della lacca era un profumo che aveva qualcosa di afrodisiaco. Molti di quella generazione ballarono “Auschwitz” forse senza avere totale consapevolezza dell’enormità di quella tragedia, tanti appresero allora una storia che a scuola non sempre si raccontava, presero coscienza anche attraverso quella canzonetta di cosa era accaduto poco più di vent’anni prima. E soltanto da poco, col processo ad Eichmann, tutto questo cominciava ad essere conosciuto. Di Primo Levi si incominciava a parlare da quando “La tregua” era stata premiata dal primo Campiello. Nel 1947 il suo “Se questo è un uomo” era stato rifiutato dai grandi editori, Einaudi in testa, e stampato da un piccolo editore: delle 2500 copie iniziali, metà erano rimaste invendute. I programmi di storia delle superiori si fermavano, se andava bene, alla Grande Guerra, spesso si citavano appena il fascismo e la seconda guerra. Nessuna pagina sulla Shoah. I giovani che di lì a poco sarebbero scesi in piazza a contestare, avrebbero saputo tutto sulla guerra del Vietnam e poco sullo sterminio degli Ebrei. Per questo la canzone di Francesco Guccini ha avuto un senso forte, ha spinto a farsi domande, a scavare per capire cosa fosse stato davvero Auschwitz. Il campo di sterminio vicino a Cracovia, la città di Papa Wojtyla, è stato costruito dai nazisti in uno dei posti più umidi, malsani e maleodoranti della Polonia. “La vita l’ha evitata da anni, perché vi sta a guardia la morte”, aveva scritto uno storico. I nazisti pensarono che quello fosse il posto più adatto per la fabbrica della morte, per l’assassinio organizzato come una sorta di produzione in serie. Una catena di montaggio dell’orrore che portò allo sterminio, soltanto lì, di un milione di persone. I nazisti tenevano una contabilità da impiegati di banca diligenti, non sprecavano niente, perfino le ceneri venivano utilizzate come fertilizzanti. Il fumo saliva ogni giorno e ogni notte ad Auschwitz e la neve c’era quasi sempre. C’è anche adesso, perché in quel posto evitato dalla vita l’inverno è lunghissimo e freddissimo e la primavera, quando arriva, scioglie la neve e lascia scoperta un’erba che non è mai verde. E’ come se l’erba del campo avesse incorporato da allora il colore del sangue e della morte e fosse diventata per sempre più scura che verde. Attorno al recinto spinato, ai binari della ferrovia, alle baracche, ai forni crematori, ai muri delle fucilazioni e alle forche per le impiccagioni. Penso che il ministro della Pubblica Istruzione dovrebbe rendere obbligatoria una visita ad Auschwitz per tutti gli studenti di maturità. Anche a Mauthausen o a Buchenwald che è vicino a Weimar la città di Schiller e di Goethe, le più grandi espressioni della letteratura tedesca. Nel bosco di Weimar Goethe scriveva versi e pagine immortali e raccontava degli incontri con Carlotta. Ai bordi di quel bosco i nazisti hanno creato la morte. La grandezza e l’orrore di una nazione in uno stesso posto. I nostri studenti verrebbero messi faccia a faccia con le conseguenze del razzismo, con gli effetti devastanti delle dittature e dell’odio. Qualcuno forse imparerà che è vergognoso nel 2014 per il “Giorno della memoria” spedire alle Sinagoghe pacchi contenenti teste di maiale. L’odio cresce anche così, viaggiando per posta. Auschwitz è come aprire una porta dell’inferno in terra. Spalanchi l’uscio di una baracca e ti arrivano in faccia gli odori della paura, della tortura, della morte stessa. E’ come se tutto venisse trattenuto a fatica da decenni da legna e terra e ogni volta che qualcuno fa entrare la luce, quel passato ti respirasse terribile in faccia. Tu non resisti, perché ti entra in profondità e ti rimane dentro, anche quando te ne vai. Come quelle montagne di capelli tagliati e conservati, perché dovevano servire alla grandezza del Reich. E quei capelli quasi imbiancano, come se avessero ancora radici e fossero attaccati alle teste. O le montagne di occhiali strappati dal volto, di pennelli da barba, di pettini, specchietti, borsettine da trucco, valigie, scarpe, bastoni da passeggio, protesi per grandi invalidi, braccia e mani di ferro, gambe di metallo. Perché tutti quelli che diventavano fumo non erano soltanto un numero tatuato sul braccio, ma persone che avevano un passato e speravano di avere un futuro. Come Anna Frank che lasciò scritto nell’ultima pagina del suo diario: “Come vorrei essere e come potrei essere se… se non ci fossero altri uomini al mondo”. Gli altri uomini non le diedero il tempo di finire la pagina, di immaginare quello che tutti gli uomini e le donne a quell’età sognano.  Ma noi per ricordare abbiamo bisogno che stabiliscano per legge il “Giorno della Memoria”. Rischia di diventare una sorta di rito sterile e retorico se tutto si esaurisce in quel giorno e l’indomani si affrancano le lettere per la Sinagoga. Ultimo aggiornamento: 20:02 © RIPRODUZIONE RISERVATA