Tonin Casa, un'azienda da 12 milioni. Il patron: «Ma qui mancano manualità e voglia di sognare. Se va in pensione un verniciatore non se ne trova uno nuovo»

Lunedì 17 Aprile 2023 di Edoardo Pittalis
Tonin Casa, un'azienda da 12 milioni

L'idea di Ernesto Barbieri è quella di recuperare la manualità artigiana, riaprire le botteghe, creare un territorio del mobile che sappia lavorare il legno, il metallo, il marmo, la ceramica, il vetro. Una filiera realizzata sulle tre province di Padova, Vicenza e Verona.

Dice Barbieri che la delocalizzazione è stata una malattia che può portare alla cancellazione di antiche professionalità, travolgendo cultura e storia di un popolo. Spiega che occorre tornare a dare dignità al lavoro: «La bellezza del fare va trasferita anche a scuola. Bisogna dare nobiltà ai lavori che hanno fatto della manifattura italiana la stella del mondo». Aggiunge: «Ma bisogna anche trovare manodopera».


Ernesto Barbieri, 51 anni, di Sandrigo (Vicenza), ha la sua azienda, la "Tonin Casa", a San Pietro in Gu (Padova): mobili di produzione totalmente italiana. Trentadue dipendenti, un fatturato di 12 milioni di euro, l'Italia come primo mercato, poi Usa, Cina, Ue e anche Russia. Da domani sarà con le novità al Salone del Mobile di Milano, la fiera internazionale per eccellenza.

Il mobile veneto è molto copiato: non facciamo in tempo a presentare un modello in Fiera che il giorno dopo c'è già in giro la copia. Ma sarebbe peggio se non ci copiassero


Ha scelto il paese padovano più a nord proprio per la collocazione geografica e perché domina il Brenta. Napoleone dall'alto del campanile di San Pietro in Gu diresse la battaglia, lungo il fiume, contro gli Austriaci. Barbieri è arrivato dal Vicentino dopo una carriera nel salvataggio delle aziende, anni di esperienza in Cina e un passato da centrocampista del Thiene. Col suo talento calcistico serviva palloni da trasformare in rete al centravanti della squadra rossonera, Toto Rondon, uno che aveva giocato e segnato nel Lanerossi Vicenza in B in coppia col giovanissimo Roberto Baggio.


Come è arrivato dal Vicentino nella provincia padovana?
«Mio papà Urbano e mamma Renata erano ceramisti, avevano aperto una loro piccola fabbrica nel 1974 a Longa di Schiavon. Il garage di casa è diventato prima il loro laboratorio poi la base di una fabbrica con una ventina di dipendenti. Ho incominciato a fare i primi lavori d'estate nella bottega di famiglia, mi piaceva molto il mondo della ceramica. Quando sono andati in pensione, le Ceramiche Barbieri hanno chiuso. Io mi sono laureato in Economia a Verona, con una tesi sul mercato finanziario tedesco. Avevo fatto l'Erasmus a Norimberga, dovevo finire in banca a Berlino, ma tornato in Italia ho iniziato a collaborare con uno studio di commercialisti di Thiene, specializzandomi nella organizzazione aziendale».


E la Cina quando è arrivata?
«Ho seguito la joint venture di due aziende meccaniche in Cina e l'apertura di due succursali cinesi. Partivo anche per tre settimane al mese, queste due aziende andavano male in Italia e benissimo in Cina, tanto da diventare leader del settore. Così ho cercato alcuni soci e insieme le abbiamo rilevate. Sono stato in Cina per mesi interi. L'idea che avevo della Cina la dovevo cambiare ogni volta che andavo: hanno una capacità incredibile di fare. Già allora si capiva benissimo che non sarebbe stato solo un mercato di approvvigionamento, la famosa "fabbrica del mondo", ma anche un mercato dove potevi vendere. La Cina è un paese dove si sente che in qualche modo ti controllano, o meglio hai la percezione che quando ti muovi sanno esattamente dove sei e cosa fai. L'Italia è vista con ammirazione; il made in Italy, è un valore aggiunto».


Dall'Asia ai mobili, è stato un passo lungo?
«È stata una conseguenza logica. In quella fase del mio mestiere ero uno che rilevava società in difficoltà o per il cambio generazionale o per una crisi di mercato: le riorganizzavo, ricostruivo il brand e le proponevo al mercato. Tra queste aziende c'era "Progetto Design", e nell'aprile del 2015 mi sono trovato di fronte alla Tonin Casa. Siamo intervenuti per dare una riconoscibilità allo stile, per riportare il marchio nelle grandi fiere e siamo stati anche in Cina, trovando aperture interessanti. L'azienda l'anno prossimo compirà 50 anni, l'ha creata Gianni Tonin che da trasportatore di mobili era diventato un imprenditore vulcanico: era partito con le "entratine", i mobili all'ingresso dove deporre gli oggetti. La Tonin Casa mi ha preso la mano: l'idea era quella di rimetterla sul mercato senza ricorrere ai Fondi che oggi si inseriscono in tante aziende del settore, invece è diventato il mio lavoro esclusivo. Ci siamo riorganizzati a livello di distribuzione aprendo punti vendita a Roma, Milano, Torino e il prossimo sarà a Bari. Abbiamo distributori da Mosca a Los Angeles. Ritorniamo in Cina, alla Fiera di Shangai, dopo la chiusura per la pandemia».


Che cosa portate al Salone di Milano?
«I nostri pezzi forti che sono tavoli, sedie e complementi. Per la prima volta anche un divano componibile: due anni fa ho acquisito la Black Tie di Montorso Vicentino che fa imbottiti, avevamo necessità di entrare nel segmento del divano componibile. Copriamo tutte le zone dove si vive, dal tappeto al tavolo alla sedia, compresi lampade e accessori. L'anno scorso abbiamo presentato madie in legno con intarsi di ceramica fatti nel distretto di Nove. Quest'anno a Milano ci sarà l'armadio con antine di marmo della Margraf di Chiampo. Tutto costruito nei laboratori della zona, made in Nordest posso dire. Credo nella forza di questo territorio: quasi un'unica azienda. Nella zona di San Pietro in Gu lavorano bene metallo, vetro e legno; poi tra Vicenza e Verona ci sono i maestri del marmo e quelli della ceramica a Nove».


Che problemi ci sono?
«All'interno delle aziende sta mancando non la parte delle idee, ma la parte manifatturiera: manca chi sapeva fare certe cose. È uno degli effetti della delocalizzazione, oggi sta venendo a mancare la capacità di produrre. Le manualità si sono perse e sono mestieri che ti darebbero, oltre alla soddisfazione del fare, anche la soddisfazione economica perché si tratta di figure ben remunerate. I nostri fornitori hanno problemi: se va in pensione un verniciatore, non se ne trova uno nuovo».


Quali sono le prospettive del settore del mobile?
«Il Covid ha creato una consapevolezza della propria abitazione e questo ha incrementato le vendite. Il dover restare chiusi ha fatto riscoprire alla gente l'importanza della casa, di un ambiente accogliente. I dati anche del 2023 sono in crescita, ma sento molta preoccupazione nei clienti e non è solo la guerra tra Russia e Ucraina a creare tensione. In Italia stiamo crescendo, ma resta il fatto che abbiamo perso molte capacità produttive. Sono la nostra cultura, la nostra storia che devono essere ricostruite. L'artigianato è la base del made in Italy, bisogna fare innamorare di nuovo i giovani dei mestieri, dare nobiltà ai lavori che hanno fatto della manifattura italiana la stella del mondo. Mi sembra che manchi quell'ottimismo che aveva mio padre quando è partito con la sua piccola fabbrica. Oggi si è smesso di sognare, quella scintilla che ha fatto partire l'Italia del dopoguerra e poi quella del miracolo economico ed è durata fino a tutti gli anni Ottanta, non c'è più».


Solo il lavoro nella vita?
«No, ho l'hobby del pallone, purtroppo negli ultimi tempi l'ho trascurato. Ho giocato in Promozione col Thiene, ero un buon centrocampista con propensione offensiva. Lo sport mi ha insegnato a stare in mezzo alla gente, a condividere un progetto, a festeggiare un obiettivo raggiunto. Il calcio, nonostante il populismo attorno, resta anche dal punto di vista formativo uno degli sport che ti lascia dentro di più perché vince la squadra, perché hai bisogno dei compagni. Ora qualche pedalata e una pizza con gli amici. Ogni tanto gioco con mio nipotino che ha cinque anni, Pietro Maria, e incomincio a perdere anche con lui».

Ultimo aggiornamento: 18 Aprile, 10:22 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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