Adriano De Grandis
OGGETTI DI SCHERMO di
Adriano De Grandis

Past lives, le struggenti onde del destino
La disumanità della Holland, Costanzo flop

Venerdì 16 Febbraio 2024

C’è sempre un momento sbagliato nella vita, a volte anche di più. Come rincorrere qualcosa che non riesci mai ad afferrare, perché una volta sei troppo piccolo e magari pensi che la consolazione verrà prima o poi a mitigare un distacco, che da fanciullo sarebbe un errore ritenerlo definitivo; un’altra volta sei troppo distante, perché le storie s’incontrano e si allontano, come cavalli imbizzarriti, e quando capisci che forse questa potrebbe essere l’ora giusta, in realtà sono già successe troppe cose, alcune irrimediabili nel prosieguo del tempo; un’altra volta, infine è troppo tardi per tutto e la vita presenta un conto che magari non meriti, ma il destino se ne infischia e ti abbandona nuovamente e sai che ormai non ci può essere più un domani se non sei riuscito a costruire mai nemmeno un fragile passato. Sono le onde del destino. Non andare via, dice una meravigliosa e celeberrima canzone di Jacques Brel, tradotta in italiano da Gino Paoli, ma “Past lives”, che magari non possiede la struggente disperazione di quel protagonista, porta con sé comunque lo sconforto di una separazione interminabile, perfino ripetuta desolatamente più volte da una sorte avversaria capace di far fiorire un rimpianto inconsolabile. Nora e Hae Sung sono due bambini, amici del cuore, che vengono separati: lei vola in America con la famiglia, lui resta a Seul. Dodici anni dopo si ritrovano a parlare a distanza attraverso Skype: Nora è diventata una scrittrice come voleva, Hae Sung è un ingegnere. Sentono che qualcosa di importante è stato interrotto, ma ormai la loro vita è segnata. Tuttavia si ripromettono di incontrarsi un giorno, perché è ancora viva la speranza di un qualcosa che non ha mai saputo trovare l’attimo più adatto per compiersi. Passano altri 12 anni e quel giorno finalmente sembra arrivare: Nora intanto è sposata con Arthur, Hae Sung è tornato libero dopo un fidanzamento andato storto. Il loro incontro rimescola i sentimenti, ma la vita ha già fatto il suo corso. Partendo da un’esperienza personale, la giovane coreana Celine Song, al suo esordio, firma una bellissima e lacrimosa commedia romantica (in parte autobiografica), dove i silenzi contano più delle parole (e nel film di silenzi ce ne sono di ingombranti), e la vita spiega ciò che potrebbe essere stata e che invece non ha mai vissuto. Raccoglie il doloroso sentire di chi finisce con l’essere straniera per destinazione geografica e al tempo stesso estranea a quell’amore rincorso e mai raggiunto, dove i lati di questo rapporto sentimentale sono come quelli di un triangolo scaleno, dove sembrano non incontrarsi mai, nemmeno i due più attaccati. E alternando sequenze divertenti ad altre struggenti, ricorda a tutti che ogni addio è sempre una ferita difficile da rimarginare. E il pianto che accompagna il fallimento conseguente ne è il suo segnale inconfondibile. Voto: 7,5.

AI CONFINI DELL'UMANITÀ - Per “Green border”, ultimo film della regista polacca Agnieszka Holland, appena uscito in sala, è forse necessario parlare prima d’altri e d’altro. Perché alla Mostra di Venezia ha lasciato un segno forte e oggi tiene ancora banco un confronto, anche se abbastanza sottovoce; e perché successivamente ha provocato scelte deplorevoli in patria. Il confronto riguarda ovviamente “Io capitano” di Matteo Garrone, che parte dallo stesso tema portante (l’immigrazione), ma a differenza della Holland che ne fa un racconto realisticamente sconvolgente, opta per una soluzione più fantastica-favolistica (sempre più cara al regista italiano), smussando i momenti più drammatici, che pure non mancano. A Venezia Garrone ha vinto il Premio alla regia, mentre la Holland il Premio della giuria, riconoscendo a entrambi i film un valore estetico, narrativo e politico importante. Tuttavia deve essere anche chiaro che chi, tra il pubblico, parla del film di Garrone come un’opera dura e terrificante dovrebbe accostarsi anche a “Green border” per capire come tra i due film esista, in verità, uno scarto importante sulla rappresentazione drammatica dell’essere migranti e profughi. Va da sé che si tratta di scelte. Ma se da una parte Garrone trova l’incanto, anche paesaggistico, con le scene girate nel deserto e in mare, la Holland va dritta al dramma, in bianco e nero e con uno strazio dei corpi, che a “Io capitano” manca del tutto. Il secondo confronto è più “politico” in senso stretto. Se l’Italia ha lanciato Garrone nella corsa agli Oscar, raggiungendo la nomination (con discrete chance per la vittoria), la Polonia ha, al contrario, negato questa possibilità alla Holland per ragioni evidenti, visto che il film è stato duramente attaccato in Patria, per come ha denunciato ciò che lì sta accadendo. Detto questo “Green border” è un potente, straziante j’accuse in opaco bianco-nero al trattamento dei migranti sul confine polacco-bielorusso (da qui il titolo “Green border”), che strappa il cuore. Persi nella boscaglia e costretti costantemente a passare avanti e indietro la frontiera, come corpi indesiderati e soprattutto usati a scopo politico, i profughi (anche quelli che arrivano in aereo, per dire) diventano, oltremodo, oggetto di profonda e scioccante conflittualità interna e personale, con la popolazione e soprattutto gli attivisti pronti ad aiutare chi ha bisogno, mentre il Potere dello Stato e le Forze di polizia si comportano spesso come veri aguzzini. Non privo di momenti altamente drammatici (si pensi al bambino che annega, momento particolarmente scioccante) e capace di trasmettere autentica commozione nello spettatore, il film paga soltanto qualche eccesso, compresa la durata, ma regge l’impegno morale che si è dato. Voto: 7,5.

L'ILLUSIONE DEL MONDO DEL CINEMA - La giovane Mimosa finisce, al posto della sorella, nel cast di un film che si sta girando a Cinecittà. È l’ultimo giorno di riprese e accidentalmente la protagonista (Lily James) incrocia lo sguardo nei corridoi dell’umile Mimosa (Rebecca Antonaci), restandone ammaliata e pretendendo di averla immediatamente sul set. Esaurita l’esperienza, Mimosa vorrebbe tornare a casa, ma finisce nella notte romana, facendo la conoscenza di un mondo molto diverso da come se lo sarebbe potuto immaginare, tra alcol e droga, avance sessuali e personaggi loschi. Siamo negli anni ’50, quando viene scoperto il corpo senza vita di Wilma Montesi (qualcuno lo ricorderà), e Costanzo, con "Finalmente l'alba", sceglie di disegnare un percorso traumatico di formazione, dove il sogno del mondo del cinema diventa presto un incubo, nel quale la ragazza perde la sua innocenza. Descrive, insomma, il lato malato dell’ambiente cinematografico, idea di per sé ormai poco originale (si pensi ai mille esempi che si potrebbero fare, da Fellini, a Visconti, a Pietrangeli eccetera eccetera, fino al recente "Babylon"), senza un aggiornamento sensibile di sguardo e stile, purtroppo adagiandosi in modo blando al passato (dall’omaggio iniziale al neorealismo, al peplum allora in voga, spezzone fin troppo lungo). Ne esce un film, dal costo esorbitante di 30 milioni di euro (che non si vedono), quasi stanco nella sua denuncia, privo di mordente anche nei momenti di maggior cattiveria (a parte forse un grande, lungo silenzio in cui Mimosa è messa alla berlina, indicandola come poetessa), dove lo spaesamento di una ragazza “fuori posto” si traduce in una galleria di personaggi e situazioni più consumate che costumate, tralasciando Alba Rohrwacher che fa Alida Valli e Willem Dafoe che fa l’autista. Il film esce in sala con una durata leggermente inferiore rispetto a Venezia. Voto: 4,5.

 

Ultimo aggiornamento: 14:52 © RIPRODUZIONE RISERVATA