Adriano De Grandis
OGGETTI DI SCHERMO di
Adriano De Grandis

L'uomo sulla Luna: lo spazio è senza eroi
Rubare per noia: giovani perduti in Messico

Sabato 3 Novembre 2018


La corsa alla Luna occupò di fatto lo spazio nevralgico degli anni ’60, in cui Stati Uniti e Unione Sovietica spostarono anche in cielo la loro guerra fredda e la rivalità politico-economica, che nell’immaginario dell’umanità avrebbe garantito una supremazia non solo militare. Com’è noto lo sbarco avvenuto sul nostro satellite nel luglio 1969 è stato oggetto per tutti questi anni (e continua, pur in modo meno chiassoso, ancora oggi) di un negazionismo, a tratti anche spassoso, da parte di scettici e complottisti che hanno cercato in tutti modi di dimostrare che si trattò di una colossale, co(s)mica bugia, senza peraltro riuscire nel loro intento, un dubbio comunque evocato anche dal cinema, al pari di film che sulla reale conquista della Luna hanno raccontato tale epica leggendaria, nata un secolo prima dalla fantasia di Jules Verne (e successivamente dai film di Georges Méliès).
Il regista Damien Chazelle torna oggi sull’argomento raccontando la lunga fase che portò l’avvio della Missione Nasa all’effettivo sbarco (di fatto tutto il decennio sixties), in una chiave più intimista, attraverso l’esperienza personale di Neil Armstrong, il primo uomo ad aver appoggiato il piede sul suolo lunare e che qui ha la faccia meno ruffiana del solito di Ryan Gosling. Due anni dopo “La la land” il regista americano, di nuovo a Venezia e di nuovo in apertura di Mostra, con “First man – Il primo uomo” racconta, come nei suoi film precedenti, la sua storia prediletta che insegue il raggiungimento ossessivo di un risultato, iniziato dal sincopato “Whiplash” e che anche oggi, in questo straordinario tragitto compiuto da Cape Canaveral al Mare della Tranquillità, si porta dentro tutto l’antagonismo con i russi, pur senza invadere troppo la chiave individualista, fino alle proteste di chi vedeva tanto denaro continuamente sperperato a danno delle popolazioni più povere della nazione.
Lavorando di sottrazione Chazelle, provvidenzialmente lontano da Tarkovskij e Kubrick, si spinge sul terreno familiare per svelare la percezione di un uomo, privilegiandolo all’eroe, che ha più paura a confrontarsi con i figli che a volare verso la Luna, in quella che resta la scena chiave di tutto il film. Si fa apprezzare certamente per il tentativo di essere antiretorico, ma specie nella parte finale del viaggio vira improvvisamente nel suo contrario, con una solennità eccessiva e un’insistenza emotiva, come il lancio del braccialetto della figlia morta tempo prima. Però fa sentire come poche altre volte il rumore fisico dello spazio, dentro il furore centrifugo delle astronavi (bellissimo l’incipit) e chiude con una scena quasi commovente con Neil (chiuso al ritorno in quarantena) e la moglie, già lanciati in contrasti affettivi, divisi da un vetro protettivo, sul quale appoggiano le mani con titubanza, presagio della loro futura separazione.
Stelle: 3

MUSEO: UN FURTO, UNA GENERAZIONE
- Juan e Wilson sono due amici per la pelle. Il primo è figlio di un medico, il secondo ha il padre morente. Passano le loro giornate piuttosto stupidamente, tra ore noiose a rimandare la laurea e giochi idioti, come il cubo di Rubik a mo’ di mela di Guglielmo Tell. Non hanno voglia di far niente, forse colpa di una vita troppo agiata, sono fieri interpreti di un vuoto cazzeggio. Decidono tuttavia di fare una bravata: rubare al Museo Archeologico di Mexico city diversi oggetti in esposizione, tra cui importanti manufatti dell’era Maya, per poterli rivendere. Ma il gioco, stavolta pericoloso, si rivela più grande delle loro possibilità. E la vita prende la strada peggiore.
Il regista messicano Ruizpalacios, dopo l’esordio di Güeros (anch’esso alla Berlinale, come “Museo”, che ha vinto la miglior sceneggiatura), sconvolge una storia abbastanza semplice e poco originale trasformandola in un’opera stratificata e seducente con una regia che esplora la grandangolarità estetica del cinema, con una formidabile verve fantasiosa. Un film più da vedere che raccontare, dove Gael Garcìa Bernal regala la sua migliore, cangiante interpretazione di sempre.
Tratto da una storia vera, avvenuta nel 1985, “Museo” è il racconto sincopato di due ragazzi balordi, la meglio e più ricca gioventù messicana, diventando anche una sorta di esplorazione esistenziale, passando dal noir alla commedia, dal poliziesco al cinema d’autore, fino al road-movie in una brillante visione dei generi e della vita. Ma è proprio perché è tutto così inverosimile eppure terribilmente veritiero, che lo stesso regista si diverte a depistare continuamente lo spettatore, in un altrettanto gioco attraente e sofisticato.
Sospeso tra la commedia e il dramma, più opportunamente codificato sui tasti della farsa, dove è imbattibile la sequenza in cui il protagonista svela l’inganno di Babbo Natale ai bambini, con battuta sul capitalismo annessa, il film vorrebbe spingersi più in là in una lettura generazionale e sociale di un Paese, ma il respiro allora diventa più faticoso. Invece va preso per quello che è sul serio: uno scanzonato, folle, intelligente passatempo. 
Stelle: 3
 
IL PRESIDENTE
  - In un hotel sulle Ande innevate si ritrovano i leader sudamericani, che devono decidere sulla nascita di un’Allenza petrolifera continentale. Tra questi, il capo di Stato argentino viene raggiunto dalla figlia separata, che improvvisamente sconfina nella pazzia e nel silenzio. E la storia privata invade quella pubblica. “Il presidente” è una potente lettura sulle dinamiche politiche e personali del Potere, del suo cinismo estremo, dei giochi perversi che lo animano, sospesa in un’atmosfera quasi surreale, che conferma il talento estetico e narrativo dell’argentino Santiago Mitre, passato con questo film a Cannes. Grandiosi gli interpreti. Sceneggiatura impeccabile. 
Stelle: 3 1/2
  Ultimo aggiornamento: 09:49 © RIPRODUZIONE RISERVATA