LA STORIA
«Ero un ragazzo che girava tra Jesolo e Cortina con la sua Laica.

Martedì 9 Ottobre 2018
LA STORIA «Ero un ragazzo che girava tra Jesolo e Cortina con la sua Laica.
LA STORIA
«Ero un ragazzo che girava tra Jesolo e Cortina con la sua Laica. Fotografando il Vajont sono diventato un uomo. E la mia vita non è più stata la stessa». Quella frana, il fango e quei morti hanno cambiato l'esistenza di Vittorio Russo italiano, nato a Porto Said in Egitto - tra i primi fotografi ad arrivare, all'alba del giorno dopo la frana del monte Toc a Longarone avvenuta il 9 ottobre 1963, giusto 55 anni fa. Ha compiuto da poche settimane gli 80 anni celebrando il suo lavoro di tour operator (uno dei più noti d'Italia) in Egitto. «La mia famiglia ha subito tante traversie e io credevo di aver sofferto perché ero una specie di profugo in patria; mentre i miei, fornitori navali, avevano perso tutto con la nazionalizzazione di Nasser, prima il canale di Suez e poi le aziende straniere. Quello è stato niente e ancora adesso dico: sono fortunato. Quello che ho visto a Longarone non lo dimenticherà mai per tutta la vita».
Per esempio?
«Non le ho mai dette ad alcuno tante cose: ma come si fa a fotografare il troncone di un braccio e la mano di una bambina (era tutto quello che restava) che stringeva una bambola, l'avambraccio di un uomo attaccato ad una persiana? Un cadavere che i militari hanno tolto dal fango con delicatezza, ma ne era rimasta solo la parte superiore?».
Sono più le foto che non ha fatto che gli scatti pubblicati?
«Ecco è proprio così. All'inizio - me ne rendo conto adesso che lo dico - ho girato per il fango e la melma con due Leica e una Rolleiflex senza scattare. Come intontito. Ma come si può scattare di fronte a quel disastro? Solo dopo un po' ho cominciato a rendermi conto che ero lì per documentare per l'Ansa (le sue immagini hanno celebrato, con altre, storiche, i 60 anni dell'agenzia qualche tempo fa) la tragedia del Vajont. Ero arrivato a Longarone senza sapere quello che fosse successo. Ho scoperto tutto sul posto. Non sapevo dei morti, non sapevo niente di niente. Mi è sceso il mondo addosso».
Chi le ha detto di partire per Longarone?
«Devo fare un piccolo passo indietro. Ero iscritto all'università di Padova, chimica industriale; ma dovevo collaborare a mantenere la famiglia fuggita senza alcunchè dall'Egitto nel 1957. Così d'estate facevo lo scattino sulle spiagge di Jesolo e d'inverno, due-tre mesi, free lance a Cortina con Foto-Ghedina: vip, industriali, persone importanti, un po' di gossip, o solo gente che voleva una foto nella città delle Olimpiadi. E Ghedina collaborava anche con l'Ansa».
Allora?
«Saranno state le 4 di mattina, stavo a Mestre e mi telefona un collaboratore di Ghedina: vai a vedere a Longarone, non si capisce cosa sia successo è un disastro pare. Noi non possiamo andarci, tutto bloccato. Mi vesto prendo la borsa sempre pronta con una ventina di rullini. Mia madre mi voleva fermare, aveva paura. No, mi hanno chiesto aiuto e io vado».
Come arrivò?
«Avevo una Fiat 600. Ma al posto di blocco di Ponte di Piave non si passa. Lascio l'auto e trovo un militare che, con una jeep e altri colleghi, sta per partire per Longarone salga mi dice, la portiamo noi».
Facile.
«Macchè. Io non ero un giornalista accreditato, avevo solo biglietti da visita di agenzie di Jesolo e di Ghedina, mica mi avrebbero fatto passare se non fosse stato per una tessera di corrispondente che mio padre, Vito, mi aveva fatto avere dal Giornale d'Italia di Buenos Aires. A loro ogni tanto davo qualche notizia dal Veneto, lì era pieno di nostri emigrati. Così passo. Arriviamo fino a Faè. Ci fermiamo perché è tutto pieno di fango».
Comincia a capire.
«
Capisco che devo andare avanti. Con le scarpe che usavo a Mestre sono arrivato fino a Longarone. Ho cominciato a fotografare la catastrofe. La foto di quel binario contorno e lo sfondo, molti metri più in giù, tutto devastato è mia. L'hanno stampata tutti i giornali del mondo».
Quei momenti sono densissimi, lunghissimi e corti contemporaneamente. Mangiare, dormire?
«E chi ci pensava. Ho dormito accanto ad un'auto dei militari che mi hanno dato un piatto di pasta e una coperta. Quanti militari. E quanta gente che scavava mani nude, senza parlare. Un'atmosfera surreale».
Il giorno dopo?
«Sono rimasto due notti a Longarone. Il giorno dopo mi arrivano trentasei rullini Ilford che avevo chiesto, forse con un elicottero; portavano di tutto così, non c'erano strade. Ho continuato a guardare e fotografare. Ma ancora adesso che ne parlo, mi creda, mi viene la pelle d'oca. Ricordo una donna che piangeva con a fianco il corredo incartato di sua figlia scomparsa, che doveva sposarsi. Non puoi pubblicare questo, mi dicevo».
Ma i rullini come sono arrivati all'Agenzia?
«Avevo una vecchia busta con scritto Ghedina. Li ho messi tutti dentro e scritto il mittente: Vittorio, nemmeno il cognome. E ho dato tutto ad un militare che partiva con una jeep; pregandolo di consegnare questo materiale. Un miracolo ma ha funzionato».
Chi c'era in quei giorni?
«Militari tantissimi, gente poca. Veniva a guardare tra le case (che non c'erano più) dei loro parenti cercando un oggetto, il resto di un mobile. Un ricordo. C'erano detriti di tutto, cadaveri che si intravvedevano uscire dal fango. Mi sono mosso fino al cimitero vecchio di Longarone le cui tombe erano esplose, ho scattato. Ho scattato fino a quando ho incontrato l'unica chiesa rimasta in piedi. Poi mi sono reso conto che tutto era finito per me».
E' tornato a casa, come?
«Sono salito per caso in un pullman militare che portava a Belluno alcuni sopravvissuti. Stavano tutti in silenzio. Io, con le mie macchine fotografiche: immobile e in silenzio anch'io. Ho ritrovato la mia auto e sono tornato a casa. Mia madre pianse. Avevo la febbre e le dissi: mamma anche se noi abbiamo lasciato in Egitto tutto ci resta da vivere, siamo fortunati. Non sai cosa ho visto lì. Ero diventato un'altra persona».
Che pensa
«Che solo vedendo le foto degli altri pubblicate nelle settimane successive ho cominciato a capire che io ero finito in una dimensione incredibile. Non mi sembrava di aver vissuto anch'io quel disastro. In due giorni ho sofferto e sono maturato quanto un uomo può in un'intera vita».
Adriano Favaro
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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