Un veneziano in Cina, il musicista Igor Cognolato: «Insegno ai pianisti cinesi come diventare più occidentali suonando»

Lunedì 8 Gennaio 2024 di Edoardo Pittalis
Igor Cognolato

VENEZIA - C'è sempre un veneziano in Cina. La cosa non sorprende, accade puntualmente da otto secoli, da quando Marco Polo arrivò oltre la Grande Muraglia seguendo la Via della Seta. Oggi di veneti in Cina ce ne sono centinaia, hanno aperto fabbriche, producono oggetti di ogni tipo, dal vetro al computer, fanno affari con tutto il mondo. Ce ne sono anche per allenare e giocare al calcio. Questo veneziano, però, è un po' speciale: insegna ai pianisti cinesi come diventare più occidentali suonando. Igor Cognolato, 58 anni, si prepara a ritornare a Pechino per poi spostarsi a Shangai: «L'organizzazione farebbe impallidire gli svizzeri. Gli studenti del Conservatorio centrale di Pechino sono all'avanguardia, usano strumenti di altissima qualità, hanno sale concerto, un albergo adiacente al conservatorio, ristoranti, caffè. Una piccola città bastante a se stessa nella quale si produce musica ai massimi livelli. La strategia che la Cina sta seguendo è quella di formare alla maniera occidentale una serie di musicisti per affidare loro le nuove generazioni di studenti».
Cognolato si è laureato all'università di Hannover e ora insegna a Venezia dove ha la cattedra di pianoforte.

Figlio di un famoso medico del lavoro, Mario, consulente di aziende come Benetton, Italgas e Teatro La Fenice. Ha incominciato a studiare musica a sei anni in una casa dove nessuno suonava uno strumento.

Bambino prodigio o solo bambino curioso?
«Ero alla scuola elementare, ho iniziato per curiosità. A una cena a casa di amici di famiglia ho sentito un adolescente che suonava un po' di jazz al pianoforte: mi ricordo ancora la musica, era "Take Five" di Dave Brubeck. La cosa mi appassionò così tanto che tornando a casa chiesi se potevo fare la stessa cosa. Non c'erano mai stati musicisti in famiglia. Ho fatto il classico all'Astori di Mogliano, sono un ex allievo salesiano come mio padre e mia moglie, e l'anno dopo la maturità ho preso il diploma di pianoforte al Conservatorio di Venezia. Da lì è iniziata la mia avventura tedesca: come molti musicisti di quel periodo non sapevo dove sbattere la testa, avevo i titoli per fare questo mestiere ma non la preparazione. Il destino ha voluto che incappassi in un corso estivo tenuto da un eccezionale pianista brasiliano del quale avevo tutti i dischi, Roberto Szidon. Disse che a novembre avrebbe insegnato all'università di Hannover e che avrei potuto raggiungerlo».

Così è iniziata la sua avventura tedesca?
«Quello è stato uno spartiacque della mia vita: sono entrato in una delle più prestigiose università del mondo per la musica dove faccio questa esperienza che mi forma, mi consente di imparare un'altra lingua straniera e mi prepara a svolgere la professione per orchestra, radio, palcoscenico. In Germania mi sento sempre a casa: un artista italiano è visto come una persona che ha una marcia in più. Dopo la laurea nel 1993 sono tornato in Italia e mi sono sposato con Elisabetta laureata in fisica. Abbiamo due figlie Greta e Alice, la prima studia canto lirico, la seconda lingue».

Una vita divisa tra insegnante e concertista?
«Ho presto iniziato a insegnare nei conservatori, da Cagliari a Trieste. Mi piace pensare che il mio lavoro di musicista sia diviso tra la parte di insegnante e quella di concertista. L'attività didattica mi obbliga a rimanere studente, con la mentalità di chi deve sempre imparare; l'esperienza di concertista mi permette di non fossilizzarmi in una visione della musica identica nel tempo. Mi piace molto egoisticamente, per il mio ruolo di padre, avere a che fare con persone che hanno l'età di mie figlie. Aiuta a tenere la mente un po' più elastica. L'attività didattica si è sviluppata con gli inviti a suonare da parte di altre università di tutto il mondo, fino ad arrivare al Conservatorio di Pechino».

Il concerto più importante?
«Il momento più importante è stato il debutto alla Filarmonica di Berlino per il Concerto Grosso di Milan Svoboda, col compositore in sala. Ho suonato molte volte alla Fenice e al Festival di musica classica in Provenza assieme al Quartetto d'archi berlinese con quale ci esibiamo da vent'anni. Molto forte emotivamente per me è partecipare al concerto di Hannover presso la sede della radio tedesca, un repertorio di musiche di Liszt trasmesso dal vivo, con duemila persone in sala. I microfoni della radio rappresentano un pubblico con orecchie molto particolari. Nel 2013 in occasione del bicentenario di Wagner ho partecipato con un ruolo importante a un documentario presentato anche alla Mostra del Cinema di Venezia e a Washington: era dedicato a un'opera giovanile e alle peripezie per ritrovare la partitura che Wagner, pochi mesi prima di morire, volle eseguire per il compleanno della moglie Cosima, figlia di Liszt. Un concerto è un atto fortemente creativo: se si potesse nella stessa sala eseguire lo stesso programma col medesimo pubblico, il risultato sarebbe comunque differente. Un disco è un po' una fotografia di qualcosa che non è più vivo, mentre il concerto è l'esperienza viva, in divenire alla quale partecipa il pubblico».

Il musicista preferito?
«Ho una consentaneità con due autori, uno di area tedesca Schumann, l'altro è Liszt. In Schumann mi attrae la sua assoluta imprevedibilità: c'è sempre qualcosa di nuovo da dire prendendo in mano lo spartito. Quasi come se negli anni in cui è vissuto fosse stato un assoluto rivoluzionario che ha rotto tutti gli schemi della musica; è il figlio per eccellenza del romanticismo tedesco, imbevuto dei testi di Goethe e Schiller. Eppure non è mai uscito dalla Germania e gli ultimi anni li ha vissuti in un sanatorio».

Il rapporto degli italiani con la musica?
«L'Italia è sempre stato un paese con fortissima impronta musicale, la musica è nata e si è sviluppata qui. Basta pensare alla passione di Bach per Vivaldi, penso a Monteverdi e al Palestrina. I primi pianoforte hanno visto la luce a Padova con Bartolomeo Cristofori: l'idea di martelli che percuotevano le corde e i martelli azionati dai tasti è italiana. Ma sono un appassionato anche di rock progressivo, di gruppi svedesi e scandinavi. È un peccato che non ci sia una diffusa tradizione di studio musicale in questo Paese, visto che la musica è una delle nostre grandi risorse e rende l'Italia un paese ammirato».

E la Cina in tutto questo cosa c'entra?
«È un altro mondo che colpisce un musicista per le caratteristiche della lingua parlata. Noi siamo abituati a basarci su melodia e metro, loro si basano su piccolissime oscillazioni dell'altezza di un suono. Il cervello è sintonizzato su altri canali rispetto a quello di un occidentale, sempre restando alla musica. I musicisti cinesi sono estremamente preparati: molti bravi cantanti lirici vengono dalla Cina o dalla Corea, sono motivati, hanno capacità di concentrazione anche abbastanza lunga nel tempo. Anni fa ho collaborato, tramite l'Istituto Italia-Cina, con un violoncellista cinese che vive in Germania: dovevamo incidere una musica popolare cinese. Per un Festival di Pechino è capitato che chiedessero alcuni musicisti: un pianista, un oboista e un fisarmonicista. Il primo invito è arrivato così e sono seguiti molti viaggi».

Cosa insegna ai cinesi?
«Essendo loro mediamente preparati e impeccabili con lo strumento, il lavoro più appropriato è la gestione del fraseggio, della metrica musicale, della produzione del suono: è una consuetudine alla bellezza che noi abbiamo. Con i cinesi lo scoglio più evidente è quello linguistico. Parlo correntemente inglese e tedesco, ma è per ora il possesso della lingua inglese da parte degli studenti cinesi a limitare le comunicazioni. Loro cercano la mia esperienza di artista occidentale italiano che ha studiato in Germania».
 

Ultimo aggiornamento: 9 Gennaio, 09:07 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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