Padova. Lo scultore Ettore Greco si racconta: «Io, folgorato dall'argilla, porto la mia arte nel mondo»

La vocazione dell'artista: «Volevo diventare Elvis ma c'era già stato. Devo tutto al mio maestro Andrea Pardini»

Domenica 17 Marzo 2024 di Iris Rocca
Ettore Greco

PADOVA «Non sarei potuto diventare Elvis: lui c'era già stato. Allora ho fatto lo scultore». Ettore Greco sembra condividere col re del rock solo l'iniziale del nome, nonostante i miti del '900 ritornino nel suo studio: dal poster di Marilyn in vetrina alla foto di Tina Modotti all’ingresso. La musica in realtà è parte integrante del suo lavoro; bene lo sanno gli Strokes che lo accompagnano fin dal ciottolato di via San Pietro.
Perché proprio la scultura?
«Talvolta me lo chiedo, perché la scultura è una rogna. Tra i figli dell’arte è quella che ha più problemi. Già comprare l’argilla significa caricarsi addosso 25 chili. E poi la forma di per sé, che non sta in piedi da sola, ha bisogno di una struttura. È una vocazione: mi è cascata addosso, folgorato da Rodin».
C’entra anche Padova?
«Sono nato in Riviera San Benedetto, dove mio padre, pittore per hobby, un giorno modellò una testa di cavallo, la più bella mai vista. Qui ho frequentato il liceo artistico, dove il professore Andrea Pardini è diventato il mio maestro. Nello studio di quest’artista maledetto imparavo l’arte e la vita, alla sua maniera smaliziata e intrattabile. Tra i suoi moniti c’era il levare, ridurre sempre al minimo. Anche la padovanità».
La padovanità?
«Sosteneva che mi avrebbe ammazzato. Non mi sarei dovuto fermare alla circolarità della zona, ma uscire. Sono diventato un cane sciolto: ho tenuto in città solo una mostra, nel 2008».
Le suggeriva anche di non insegnare, eppure non gli ha prestato ascolto.
«Vero. All’inizio ero titubante, poi ho cominciato all’Accademia delle belle arti nel 2013 a Foggia, per meriti artistici, quelli che mi hanno convinto fosse giusto farlo. Ora sono di ruolo a Venezia».
Fin da bambino le era chiaro che sarebbe diventato uno scultore?
«Mi ero immaginato con un lavoro serio, commesso o restauratore, mentre di notte mi trasformavo in uno scultore. Le prime sculture le facevo da nonna e un po’ alla volta ho avuto conferme incoraggianti. Non ero fatto per rapportarmi con un datore di lavoro. Avevo qualcosa dentro da fare uscire dalle mani, anche a costo di creare statue al cimitero».
Negli anni, Padova è rimasta la sua base.
«È la città dei miei figli, quella dalla quale non allontanarsi a lungo. Poi c’è Parigi, dove ho molte conoscenze e trovo grande slancio. Lì la gente è molto coinvolta dagli eventi in città, così anche le mie mostre nelle gallerie hanno un pubblico ricettivo. Quello per Parigi è un amore innato: ho sempre avuto ottimi riscontri».
È anche il suo più grande mercato.
«Non mi piace la parola mercato, se legata all’arte. I miei collezionisti sono persone che curo, con cui amo dialogare, che mi invitano a teatro o a casa a parlare d’arte e bere un drink, con un occhio attento alla qualità».
Non si investe nell’arte di Ettore Greco?
«Avviso sempre chi è incuriosito dai miei lavori: sa quanti sembravano ottimi investimenti nell’arte? Le mie opere sono per chi sa apprezzarle, per chi si emoziona».
E lei continua ad emozionarsi?
«A 30 anni mi sono detto che era la mia vita, a 50 me lo sono richiesto. Di mezzo c’è stata una crisi di mezza età in cui farmi rincorrere dai galleristi, nonché una crisi creativa. Poi ho compreso che la continua tensione cambia crescendo. Quella primitiva era una sana smania di imparare il lavoro dell’artista figurativo».
Quando ha capito di essere davvero uno scultore?
«Mai del tutto: è una lotta tutti i giorni. Ma da ragazzo ricordo un episodio: disegnavo un paravento e mi sono sentito libero, mi sono pens»ato un artista. Magari non era vero, ma mi sono sentito felice, ce l’avevo fatta. Una sensazione fulminea, illuminante, non erano ancora arrivati i contratti con le gallerie, ma un collezionista credeva in me».
Ha sposato l’argilla, non lo scalpello.
«Modello l’argilla com»e plasticatore. C’è chi ama la pietra e trovarne l’anima, ma io mi rapporto con creta, gesso, cera, terracotta e amo modellare e scavare. La tecnica è sempre presente, così come la disciplina: l'argilla non ti aspetta, si secca».
Intorno a lei corpi», torsi, volti.
«Il bello della scultura è che se una persona ti piace e la vorresti a fianco, la puoi creare. Ma vado a periodi: mi ispira un soggetto e ne continuo a fare finché non si indebolisce. I volti somigliano a visi che mi ispirano. Con l’argilla conservo il mio immaginario. Il corpo invece è proprio l’argilla a crearlo, solitario ed introspettivo: è il mio malessere. Mentre il ritratto è più proiettato verso l’esterno, la poesia».
Infine l’Apocalisse.
«È un’espressione nuova, che mi scuote, ma sempre legata al corpo. Elucubrazioni sul disagio di stare al mondo. Ma anche armonia».
E se una scultura non le piace?
«Facile, la rompo».

Ultimo aggiornamento: 17:01 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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