Si dice di un grande che ha lasciato un segno. È bellissimo pensare che David Bowie, il Duca Bianco, l'eterno trasformista, la cassa di risonanza del glam, abbia lasciato un ultimo, incredibile segno il giorno in cui se n'è andato, il 10 gennaio di cinque anni fa.
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GAY E BISEX
Si può anche non credere a queste coincidenze, ma si deve credere comunque alla sua arte, alla capacità di reinventarsi continuamente, di essere genio della lampada che esce a ogni disco; di essere uno, nessuno, centomila, perché riusciva nell'incredibile impresa di travestirsi sempre e di essere comunque se stesso. Chi è adolescente oggi può amarne le gesta e le opere, ma chi è cresciuto negli Anni 70 sa che cosa volesse dire fare quello che ha fatto lui: rompere gli argini, devastare i campi, non aver paura di provocare, di dichiararsi gay e bisessuale, di inventare l'art rock, applicando l'arte alta a quella bassa, la cultura del popolo a quella dei libri e dei pittori. Erano anni difficili, avanzare in quei terreni significava correre il rischio di cadere. Oggi tutto scorre, ma un tempo, soprattutto nell'arte popolare demonizzata dai perbenisti, fare certe cose significava non temere niente anche se si poteva perdere tutto.
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David Bowie guardava sempre davanti a sé, aveva chiara la linea dell'orizzonte e anche quella verticale che mette tutto nella giusta prospettiva. Se altri usavano il travestimento sul palco come gioco o come modo per esprimere se stessi e rivendicarne l'unicità (come ha fatto da noi Renato Zero), Bowie usava il travestimento come ragione di vita. Il senso del suo vagare era indossare abiti sempre nuovi per inventare nuovi personaggi. Come al cinema: l'attore si sveste e si riveste, interpreta ruoli sempre diversi, cerca di entrare nelle vite altrui per scoprire, alla fine, essenzialmente la sua, per vedere, dopo tanti volti, il proprio. «Io sono una fabbrica di personaggi, ma non sono tutti loro», così diceva Bowie. Da questi personaggi a volte si è lasciato fagocitare, altre volte ha avuto l'intuizione e il coraggio di condannarli a morte prima di sentire il morso della camicia di forza, come per Ziggy Stardust. Alcune volte è stato lui a crearli, altre volte sono stati loro a creare lui. Altre volte ancora è dovuto intervenire qualcuno dall'esterno per fargli capire che aveva scritto un capolavoro.
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PAZZO
È il caso di Starman, prodigio di bellezza che Bowie non voleva inserire nell'album di Ziggy Stardust. Non era convinto. Preferiva addirittura una cover di Round and round di Chuck Berry. Fu uno dei suoi discografici, Dennis Katz, a usare le parole giuste. In un mondo dove nessuno aveva il coraggio di parlare chiaramente alle rockstar, lui disse: «David, fai pure quello che vuoi, ma sappi che sei completamente pazzo. E i pazzi hanno bisogno di qualcuno che glielo dica, perché loro pensano di essere sani». Così, Bowie si convinse e, all'ultimo momento, decise di eliminare la cover di Berry e inserire Starman, scrivendo un altro pezzo di storia. Impossibile riassumere la sua carriera. Ha inventato troppo, scavato troppo, incantato troppo. Il più grande entertainer del ventesimo secolo, come ha decretato un sondaggio della Bbc aveva la rara capacità di inchiodarti all'ascolto, esattamente come alla vista. Impossibile resistere a quegli occhi mesmerici di colore diverso, conseguenza di un litigio per una ragazza: nel 1962, l'amico George Underwood lo colpì con un pugno all'occhio sinistro, procurandogli un danno permanente; la pupilla rimase dilatata, l'occhio sinistro assunse un colore diverso dall'altro.
IMPOSSIBILE
Impossibile resistere alla forza delle canzoni. Hai un bel dire (giustamente) che il glam l'ha inventato Marc Bolan con i suoi T. Rex, ma è stato Bowie a diffondere quel verbo in tutto il mondo. Mentre i suoi colleghi più bravi erano abili a intercettare il gusto comune, il Duca aveva il dono di anticipare il gusto comune, di leggere in anticipo i tempi della musica e quelli della società. Bowie era Bowie, quando scriveva Heroes lui era il singolare del suo titolo, un eroe del rock, dei riff e dei concept album, delle follie e degli azzardi (Station to station che dura dieci minuti e solo dopo tre di ipnotica marcia strumentale arriva la voce), di canzoni che si fanno immagini (pensiamo anche solo a Christiane F: noi i ragazzi dello Zoo di Berlino) e di canzoni che, semplicemente, ancora oggi e forse per sempre, si fanno vita.