«Keep on punching». Continua a combattere. È molto più di una semplice frase a effetto, quella che Sylvester Stallone usa sui social, per salutare i suoi fan. Guardando il film-doc “Sly”, da oggi su Netflix, oltre i muscoli e l'apparenza della più grande star dei film d'azione, si comprende quanto l'uomo, ancor prima dell'attore, abbia combattuto per tutta la sua vita. Ma non contro gli Ivan Drago di turno dei suoi molti film. L'unico grande antagonista è stato suo padre, un amore mancato: «Era Rambo, con lui non si scherzava», racconta Sly nel film, in cui il regista Thom Zimny ha costruito un racconto dallo sguardo molto intimo, che va oltre la patina edulcorata di una celebrità di Hollywood che sta invecchiando e vuole glorificarsi.
ANIMA
«Ho spiegato come mi sarebbe piaciuto avvicinarmi alla storia di Sly, in un modo che andasse oltre la fama e la rappresentazione della semplice filmografia che tutti conoscono, ma che entrasse nell'anima di un artista - racconta l'autore che ha già diretto documentari su grandi star della musica come Johnny Cash e Elvis Presley e ha lavorato a lungo con Bruce Springsteen -. Ho scoperto che ha avuto un'infanzia intensa, in particolare il rapporto con suo padre. Così, all'improvviso i personaggi di Rambo e Rocky hanno assunto un contesto diverso».
In Sly, tra filmati inediti, foto personali e i commenti di amici di lunga data - come il rivale di un tempo Arnold Schwarzenegger, Quentin Tarantino, suo grande ammiratore, l'attrice Talia Shire, Adriana in Rocky - si scava in profondità, a partire da quel trauma dell'infanzia: nato a New York da una famiglia proletaria, suo padre faceva il barbiere, la madre vendeva sigarette nei locali, la scuola in un istituto lontano dalla famiglia, la mancanza dell'affetto familiare da colmare anche da adulto. «Sono stato cresciuto da un padre molto aggressivo, non ero estraneo al dolore, ma il mio credo era "non mi spezzerò"», le parole di Stallone nel film, che da ragazzo trovava rifugio nei cinema, guardando ogni tipo di film; ma erano i muscoli di Steve Reeves, l'Ercole dei peplum, il modello da seguire.
«Passavo tempo infinito nelle sale, avevo il culto dell'eroe che salva le persone, quelli erano gli ideali, il trionfo sul male», racconta Stallone, che più che la recitazione, amava la scrittura. È dalla frustrazione di una vita in salita, che inizia questa passione, è dalla frustrazione che nasce il personaggio della sua vita. «Molti sanno che abbia scritto Rocky, ma forse non che avesse già altre 15-16 sceneggiature non prodotte prima di quella.