Venezia tanto bella da morire

Giovedì 23 Novembre 2017
Venezia tanto bella da morire
IL RACCONTO
Venezia è rimasta Venezia fino a quando è stata in grado di guardare verso Levante, l'antico mondo ellenico, le rovine dell'impero di Alessandro, e di dominarlo. Le sue navi approdavano in ogni porto conosciuto ma forza e prestigio venivano dal dominio sulla costa dalmata, la Morea, le isole disseminate nell'Egeo, la leggendaria Candia, i Dardanelli, il mar di Marmara, l'àmbita perla del Bosforo: Costantinopoli. La laguna era il porto da cui salpare, l'attracco per merci preziose che arrivavano da terre ancora piu lontane - l'India, la Cina. Era l'ammiragliato da cui erano partiti esploratori e condottieri alonati di leggenda: Marco Polo, Marcantonio Bragadin, Francesco Morosini, che per le sue imprese meritò il titolo di «peloponnesiaco» cosi come Scipione era diventato «africano». Quando tutto questo fini nel corso di quel XVIII secolo pieno di invenzioni e alonato di tragedia, Venezia cominciò a morire, ridotta oggi a esporre la sua bellezza come un tempo avevano fatto le sue celebrate cortigiane, incapace all' apparenza di un destino diverso: 54000 residenti, 34 milioni di turisti all'anno, 6000 case private con b&b, alcune migliaia di alberghi e pensioni.
SIMBOLO MARCIANO
E i cavalli di San Marco? Fanno parte anche loro della storia, anzi ne sono il simbolo. Nel 1203 il mondo cristiano europeo organizzò una spedizione militare che va sotto il nome di Quarta crociata. Un'impresa banditesca nata da un'equivoca rivendicazione al trono bizantino, mossa da interessi che nulla avevano di religioso, guidata dal doge Enrico Dandolo. Invece che dirigersi verso Gerusalemme i crociati fecero vela su Costantinopoli dove si abbandonarono per intere giornate, spesso ubriachi, ad atti di efferata barbarie uccidendo, depredando, violentando. Irrompevano perfino nella abitazioni, sfondavano le porte dei conventi anche lì violentando e bruciando. Ognuno di quei forsennati nascondeva nella bisaccia gli oggetti e il denaro delle rapine. Quelle di Stato, più ingombranti, richiedevano trasporti peciali. Tra questi ci furono i quattro splendidi cavalli, la quadriga, ornamento dell'ippodromo cittadino, issati su una nave e portati a San Marco.
Adesso possiamo dare una risposta alla bizzarra presenza della quadriga sulla facciata d'una chiesa: quei cavalli stanno lì a segnare una vittoria, simboleggiano un destino, trasformano l'ingresso della cattedrale in un arco di trionfo, sublimano nella sacralità un'impresa militare di natura delittuosa. È l'eterna legge che governa le grandi potenze, i grandi condottieri: si deve badare al sodo, occuparsi del fine ultimo, non della moralità d'una conquista, né degli strumenti usati per ottenerla.
LE ANALOGIE
(...) Assomiglia alla fine dell'Italia nel 1943, la fine della Repubblica di Venezia nel 1797. Ippolito Nievo ci ha lasciato la caustica immagine del vile «senza esempio» ultimo doge nel romanzo Le confessioni d'un italiano: «Il Serenissimo Doge Ludovico Manin passeggiando su e giù Per la stanza e tirandosi le brachesse sul ventre pronunciò quelle memorabili parole: «Sta notte no semo sicuri gnanca nel nostro letto». E lui lo spaurito protagonista dell'ultima seduta del Gran consiglio che lo scrittore e patriota veneto racconta così: Il Doge s'alzò in piedi pallido e tremante dinanzi alla sovranità del Maggior Consiglio di cui egli era il rappresentante e (...) balbettò alcune parole sulla necessità di accettare quelle condizioni, sulla resistenza inutile anzi impossibile, sulla magnanimità del generale Bonaparte (...) egli seguitava a disonorare coi suoi balbettamenti sé, il Maggior Consiglio, la Patria e non vi fu mano d'uomo che osasse strappargli dalle spalle il manto ducale e stritolare la sua testa codarda su quel pavimento dove avevano piegato il capo i ministri dei re e i legati dei pontefici. Ognuno in quelle settimane giocò la sua parte. Napoleone come vincitore, l'Austria come pretendente, Venezia imbelle prigioniera nelle mani dei due contendenti.
LA FINE DELLA REPUBBLICA
Il suo vasto dominio di terra verrà spartito tra l'Austria e la Repubblica Cisalpina voluta da Napoleone. Il Bucintoro dal quale il nostro racconto è cominciato venne distrutto e arso senza rimedio il9 gennaio 1798 come atto di spregio e anche per strappare allo scafo quanto fosse di valore o potesse tornare utile. Ugo Foscolo - di cui alcuni contestano la grandezza; non io - apre con sconsolate parole le sue Ultime lettere di Jacopo Ortis, datate «Da' Colli Euganei 11 ottobre I797»: «Il sacrificio della patria nostra e consumato: tutto è perduto; e la vita, seppure ne verrà concessa, non ci resterà che per piangere le nostre sciagure; e la nostra infamia». Anche a me infamia sembra una parola appropriata.
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