Il paesaggio magico dei Ciardi

Venerdì 15 Febbraio 2019
Il paesaggio magico dei Ciardi
L'EVENTO
La pittura dei Ciardi è un inno al paesaggio veneto, ritratto nella luce chiara che illumina i giganti di pietra delle Dolomiti o in quella aranciata che avvolge languidi tramonti in campagna, tra piccoli corsi d'acqua e covoni asciugati al sole. Il padre Guglielmo e i figli Emma e Beppe lo hanno cantato con i loro colori, le sfumature, i grandi spazi e i piccoli dettagli in decine di quadri. Eppure mai li abbiamo visti insieme, tutti e tre, manifestare similitudini e differenze come nella mostra che verrà inaugurata domani 16 febbraio a Palazzo Sarcinelli a Conegliano. Promossa dal Comune e da Civita Tre Venezie offrirà fino al 23 giugno un percorso alla scoperta de I Ciardi. Paesaggi e giardini con oltre 60 opere che lasciano in disparte Venezia, luogo d'origine della famiglia, per concentrare l'attenzione sull'entroterra, in particolare trevigiano, per salire in montagna.
VIAGGIO TREVIGIANO
Il viaggio è stato elaborato dai curatori Giandomenico Romanelli, Franca Lugato e Stefano Zampieri in uno spazio, il Sarcinelli, che già lo scorso anno aveva incantato i visitatori con Teodoro Wolf Ferrari, che di Guglielmo Ciardi fu allievo in Accademia. E se il capostipite nato a Venezia nel 1842 è forse il più conosciuto e studiato, i figli hanno rischiato di venire oscurati o peggio considerati una sorta di emanazione artistica del padre. L'esposizione segue un ordine cronologico e dedica stanze diverse ai diversi artisti, ma c'è uno spazio di contaminazioni che ci permette di vederli insieme, ritrarre gli stessi soggetti, con esiti inaspettati. La sorpresa è scoprire un Beppe Ciardi impegnato in singolar tenzone con Guglielmo nel descrivere Sappada o Canove nell'altopiano di Asiago o ancora Guglielmo ed Emma raccontare la loro Londra agli inizi del Novecento.
SPIRITO LIBERO
La giovane era uno spirito libero, grande viaggiatrice e artista amata in Gran Bretagna. Solo superficialmente la si può considerare classicista poiché spiega Lugato le architetture palladiane o i manieri inglesi in cui inserisce le sue damine settecentesche, vengono riscritte con ironia, in una sorta di mondo fantastico che non esprime un Ottocento che muore. Tutt'altro. Emma, donna single, pittrice in movimento, era come il fratello e il padre innamorata della terra veneta e della Marca in particolare, tanto da trasferirsi a Refrontolo, così come il fratello Beppe aveva scelto Quinto, dove fu assessore e in cui morì nel 1932. Tutti e tre, artisti di respiro internazionale, rimasero comunque legati a Venezia e alle Biennali d'arte che Guglielmo contribuì a fondare nel 1895. A Conegliano non vedremo i suoi poveri pescatori, i bambini con le vesti stracciate, la misera del popolo di laguna ma due interpretazioni del figlio Beppe, che risentono dell'ossessione nordica e del simbolismo: una grande zattera carica di montoni scesi lungo la Piave e L'ultimo gradino a conclusione del percorso espositivo, che ritrae una giovane mantellata di scuro il cui sguardo si perde in una laguna dalla luce morbida, eppure velata di inquietudine.
DIPINGERE IL VERO
Le opere di Beppe sono forse quelle che rivelano particolari nuovi e un nuovo sentire, reso possibile dalle sperimentazioni del padre rinnovatore del paesaggio, che insegnò ai figli come fosse necessario uscire dagli studi, immergersi nel paesaggio, en plein air, respirarlo, annusarlo, assaporarlo in tutte le sfumature. Per dipingere basta un buon ombrello e il Vero è il titolo della sala che inaugura la mostra, in cui si vede Guglielmo con il suo ombrello ritratto da Egisto Lancerotto. Perché la pioggia non si può dipingere stando riparati al caldo. Lo aveva imparato dal maestro Domenico Bresolin all'Accademia, dove si era iscritto nonostante l'opposizione dei genitori. Lo aveva sperimentato nel Grand Tour d'Italia, sulle orme dei macchiaioli toscani, in terra partenopea, tra le rovine delle campagne romane, perlopiù lontano dalle città, tra umili pastori e contadini. Prima ancora di conoscere gli impressionisti a Parigi dove approdò con l'amico Favretto nel 1878. Come spiega Romanelli, «la ricchezza della loro scelta a favore del paesaggio si misura nelle radicali novità che essi sanno introdurre in questo genere pittorico», dalla luce declinata in tutte le sue possibili atmosfere alla presenza viva e palpitante della natura anche fosse solo roccia nuda come nel maestoso Mattino Alpestre di Gugliemo in cui il Sorapis - dove svetta il dito di Dio - incute timore e riverenza con i suoi 3 metri per 1.50. Un modo diverso di raccontare il paesaggio, che influenzò la scena europea a cavallo del secolo, entrando in contatto con i grandi movimenti rivoluzionari, ma senza esserne travolto, anzi spesso anticipandoli come solo i grandi artisti sanno fare.
Laura Simeoni
© RIPRODUZIONE RISERVATA
© RIPRODUZIONE RISERVATA

PIEMME

CONCESSIONARIA DI PUBBLICITÁ

www.piemmemedia.it
Per la pubblicità su questo sito, contattaci