Il Novecento in arte di Vittorio Sgarbi

Giovedì 22 Novembre 2018
Di seguito proponiamo il capitolo dedicato al pittore veneto Natalino Bentivoglio Scarpa, detto Cagnaccio, estratto dal volume di Vittorio Sgarbi Il Novecento(La Nave di Teseo)

Vittorio Sgarbi

Cagnaccio, nome d'arte di Natalino Bentivoglio Scarpa, nacque a Desenzano nel 1897, e, fino ai dieci anni, visse a San Pietro in Volta, un'isola dell'estuario di Venezia, come figlio di pescatori. Allievo, a Venezia, di Ettore Tito, di sé scrisse, all'inizio degli anni trenta: «Mia scuola e mio maestro: la natura. E senza il più piccolo patrimonio, e senza il più piccolo dono all'infuori di quello datomi della natura, imparai ogni cosa a mie spese. Il male l'ho conosciuto così bene da scontarlo con rimorso. E il bene col fortificarmi ed elevarmi nello spirito». Cagnaccio di San Pietro contrasta le tendenze dominanti del suo tempo, e si sottrae tanto alle liturgie delle avanguardie quanto alle suggestioni metafisiche, per definire un realismo duro, plastico, di vitrea verità. Soggetti fissi, non mossi. Cagnaccio non dipinge, scolpisce. Dopo una formazione incerta e una prevedibile infatuazione futurista, con animo ribelle, fuori da ogni corrente, dipinge La tempesta, datata 1920, dove manifesta la riconquista della bellezza classica. Inizia così, con il recupero della fede, la riscoperta dei valori umili e semplici dei compaesani di San Pietro in Volta, borgo dell'isola di Pellestrina, da cui prende il nome. Un ritorno all'ordine che non lo porta tuttavia nell'area del Novecento della Sarfatti, per l'indisponibilità ad aderire a manifesti e movimenti, e per l'avversione al fascismo. Ed è alla Biennale del 1928, commissaria Margherita Sarfatti, che Cagnaccio presenta Dopo l'orgia opera ovviamente respinta in cui mostra i costumi licenziosi del regime. Per conseguenza, e per conservare la propria libertà espressiva, si finge squilibrato e preferisce il saltuario ricovero a San Servolo, il manicomio dei veneziani, per non scontare in carcere le sue dichiarazioni antiregime.
Per quanto solitario ed estraneo a ogni comunità artistica, Cagnaccio idealmente condivide lo spirito del Realismo magico. Felice Casorati, che gli apre la strada dalla fase simbolista e Liberty, sotto il segno secessionista di Klimt, al classicismo moderno, è come sottolinea Dario Biagi il più autorevole dei suoi modelli. Il riferimento alle sue opere è evidente nelle nature morte. Anche la tela In tram di Virgilio Guidi, apparsa alla Biennale del 1924, influenza radicalmente Cagnaccio, che mostra attenzione per Leonardo Dudreville e Ubaldo Oppi, paralleli della Neue Sachlichkeit, la Nuova oggettività tedesca. Insieme a questi riferimenti, l'artista guarda ad Antonio Donghi. È notevole, nella sua pittura, rigidamente lineare, un'affinità spirituale, per tramando, con i pittori lagunari del Quattrocento: i più spigolosi Bartolomeo Vivarini, Carlo Crivelli, Jacopo da Valenza, Andrea da Murano. Palesi sono anche i rimandi (particolarmente nei soggetti religiosi) a Bellini, Mantegna e Dürer. Con queste peculiarità, e il massimo vigore plastico, insieme al visionario Astolfo De Maria, al surreale Bortolo Sacchi e al realista Dino Martens, Cagnaccio rappresenta il corrispettivo lagunare della Nuova oggettività. Dario Biagi osserva puntualmente: «De Maria è geneticamente tedesco (sua madre è di Brema) ed è figlio d'arte di un pittore simbolista; Sacchi si è formato all'Accademia di Monaco. Entrambi fin dagli esordi sono inclini a quell'onirismo, parallelo o derivato dal realismo magico, che assumerà un rilievo autonomo negli anni quaranta, attraendo pure l'ultimo Cagnaccio. Eppure c'è in Cagnaccio una sostanziale distanza dai tedeschi: un sentimento d'adesione, quando non di dichiarata appartenenza all'umanità raffigurata, che lo rende partecipe e compassionevole. Nel suo sguardo non vi è la volontà di deformare, di mettere in caricatura. I suoi soggetti d'elezione (anche se non mancano i ritratti di altoborghesi) sono il popolo, i pescatori della sua Pellestrina, gli ultimi, i diseredati. Né si avverte in lui l'attrazione per il morboso e il malato, caratteristica del tedesco Christian Schad. Cagnaccio è il più oggettivo dei realisti magici e, quando è mosso da simpatia-empatia verso i suoi modelli, riesce a restituirli, ancorché congelati in un'atmosfera irreale, con qualche tratto di freschezza e spontaneità».
In alcuni dipinti che raffigurano pensierose donne allo specchio, dai volti malinconici e dagli sguardi assenti, Cagnaccio indica una dimensione interiore. Nella rappresentazione dell'infanzia, dal ritratto di Liliana fino ai neonati, bambolotti disarticolati nei loro lettini d'ospedale, il suo realismo può talvolta apparire impietoso. La compassione e la partecipazione al dolore dei suoi simili si rispecchia nei suoi soggetti, in coincidenza con la malattia che lo colpisce, un'ulcera che degenererà in neoplasia. Dimenticati i nudi peccaminosi dell'orgia, ora dominano scene di vita domestica e popolare. Anche Hitler, che avrebbe condannato i dipinti della Nuova oggettività come arte degenerata, apprezza un dipinto di Cagnaccio, Il randagio, e chiede di acquistarlo alla Biennale del 1934. Nel 1936 L'Osservatore Romano apprezza il suo passato risanato, i suoi intendimenti nuovi, il suo atto di fede nel Dio onnipotente. Un fervore religioso di Cagnaccio che si concreta in opere della piena maturità, come il Rosario una delle opere religiose, tra le rare, più notevoli del Novecento. Le dimensioni del dipinto, di esecuzione plastica e vitrea su tavola, sono le stesse (120×100 cm) della coeva L'attesa, conservata nella Galleria d'arte moderna di Roma (e della quale, recentemente, è apparsa una seconda versione). Entrambe anomale nella pittura di quegli anni, sono in realtà in perfetta corrispondenza con il clima della Neue Sachlichkeit, in particolare con Christian Schad e Rudolf Schlichter, ma con una declinazione più umana e, direi, cristiana. Il Rosario, datato 1932-1934 apparve alla Biennale di Venezia del 1934 e alla Quadriennale di Roma del 1935; e ancora, nel 1936, alla Galleria Trieste. Vi è una donna anziana vestita di nero, con i due nipoti e la loro madre, dagli occhi sbarrati, davanti al mare. I modelli del pittore sono la suocera, i figli e la moglie Mima. Il cielo è una striscia azzurra. La donna, con lo sguardo dolente, si appoggia a una sedia impagliata, inclinandola come un provvisorio inginocchiatoio. Nella mano, contando le Ave Maria, tiene il rosario. Prega perché il mare le restituisca il figlio, non portandoglielo via come certamente fece, in tempi lontani, con il marito. E quella preghiera è un coro, muto. Un coro degli ultimi. Immoti. Attoniti. Dolenti. Da quelle figure davanti al mare sale un silenzio assordante. Un dolore e una speranza. Impossibile non intenderne lo spirito religioso, la fede in un Dio che non risponde, la speranza come grazia.
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