«Ho la chiave di tutti i musei»

Lunedì 16 Luglio 2018
«Ho la chiave di tutti i musei»
IL PERSONAGGIO
«Sono una bambina di fabbrica. Da piccola papà Carlo mi prendeva per mano e mi conduceva in fabbrica la domenica, quando gli impianti erano chiusi: voleva vedere che i banchi fossero giusti per le persone che ci lavoravano. Mio padre era un marinaio sopravvissuto a un campo di concentramento tra la Germania e la Polonia, era stato deportato dopo l'8 settembre del '43. Il nonno faceva cucine economiche, mio papà da studente andava in bottega e aiutava e durante la prigionia gli è servito: faceva la manutenzione delle cucine e questo lo ha aiutato anche a trovare il cibo. Sa cosa mi ha colpito quando mio padre è morto? Che c'erano tutti gli operai e gli ex operai, qualcuno è arrivato in sedia a rotelle per accompagnarlo a Torino».
Mariacristina Gribaudi, 59 anni, torinese, è in Veneto da quando aveva undici anni. La chiamano la Signora delle chiavi perché dirige col marito Massimo Bianchi la Keyline di Conegliano, fabbrica di chiavi: 150 dipendenti quasi la metà donne (Da noi si assumono e lavorano donne in gravidanza),filiali in tutto il mondo, uno studio nella Silicon Valley; fattura 32 milioni di euro l'anno. Un'azienda tra le più antiche: i primi Bianchi a fare chiavi scesero dal Cadore nel 1770. Hanno allestito un museo con migliaia di pezzi, dalle serrature in legno dell'antico Egitto al più vecchio catalogo.
Perché la chiamano anche la Signora dei musei?
«Presiedo la Fondazione dei Musei Civici di Venezia. Undici musei che funzionano alla perfezione, seguiti in tempo reale, e dove una mamma può anche allattare un figlio e cambiargli il pannolino. Ne vado orgogliosa. Ho conosciuto Luigi Brugnaro che all'epoca non era ancora sindaco di Venezia, è una persona complicata con la quale lavorare, ma crede nei talenti. Quando è diventato sindaco mi ha proposto di entrare nel cda dei Musei Civici e di portare la mia esperienza di imprenditrice. Dovevo lavorare sull'organizzazione e la squadra c'era già, abbiamo solo valorizzato le risorse interne. Gabriella Belli è il miglior direttore di musei d'Italia, insieme facciamo una coppia di donne di carattere forte. E questo mi ha permesso di superare una nuova sfida. Non vengo pagata, lo faccio gratis».
Quando la bambina di fabbrica è arrivata nel Veneto?
«Mio papà Carlo nell'estate del 1970, mentre eravamo in vacanza a Usseglio, un paesino sperduto nella montagna che confina con la Francia, annunciò alla mamma e a noi quattro figli che ci saremmo trasferiti nel Veneto dove la sua fabbrica Mareno Grandi Cucine ormai lo stava assorbendo totalmente. L'idea di lasciare Torino spaventava soprattutto i fratelli più grandi che avrebbero dovuto cambiare scuole e amici. Io ero una ragazzina di 11 anni, per me è stata una grandissima opportunità, qui sono esplose la mia adolescenza e la mia giovinezza. Passavo da una città blindata come Torino, dove si stava già affacciando il terrorismo, a Conegliano dove potevo uscire da sola in bicicletta. Avevo l'età giusta, compagni da frequentare, dalla bici sono passata alla Vespa. Da ragazzina sono andata ad abitare nella stessa palazzina dove viveva Massimo Bianchi, abbiamo giocato insieme, lui era molto riservato anche allora».
Chi era Carlo Gribaudi?
«Uno che frequentava Adriano Olivetti e anche Marisa Bellisario, si trovavano e scambiavano le idee. Sono cresciuta nel rispetto della cultura di Olivetti, un visionario, un uomo che ha cambiato e cambia ancora la nostra società. Una lezione che ha portato mio padre a dedicare sempre una grande attenzione alle persone. Certo parlare di persone felici è usare una parola grossa, ma voleva che chi apparteneva alla sua azienda un po' si sentisse così. Diceva che la solidarietà non si racconta. Molte cose le ho scoperte quando mi ha coinvolto nell'organizzazione del suo archivio: è stato bellissimo perché sono molto curiosa e ho conosciuto il suo lato segreto, anche gli aiuti dati agli ex internati in difficoltà. Mio figlio Alessandro ha dedicato la tesi della maturità alla prigionia del nonno, trasformandola poi in un libro intitolato Trebitrezeronoveottosettetre che era il numero da prigioniero».
A un certo punto ha cambiato mestiere
«Sul finire degli Anni '90 la fabbrica di cucine fu venduta e io ne profittai per realizzare il mio sogno nel cassetto che è durato dieci anni: importare mobili dal Nord. Ho aperto a Conegliano la Casa di Sven. Ero stata negli Usa nel 1994 e in un villaggio Hamish mi sono innamorata dei loro mobili e anche del loro modo di concepire i mobili che devono essere utili-estetici-razionali. Un giorno vedo uno di loro vendere antiche posate a un dollaro l'una e non volle sentire che valevano molto di più. Quelle posate le conservo come reliquie. Ho smesso quando mio marito mi ha lanciato la sfida di affiancarlo nella sua nuova azienda: alternarci come amministratori unici ogni tre anni. Non sarei mai entrata solo come moglie di Massimo Bianchi».
Lo stesso Massimo Bianchi col quale giocava da bambina?
Quando decido di risposarmi mi ritrovo con 6 figli, quattro del primo matrimonio e due di Massimo. Ci eravamo persi di vista per trent'anni e ci siamo ritrovati davanti alla scuola dove andavano i nostri figli. Ti ricordi di me, Massimo?. Può darsi fu la risposta. Prese la macchina e se ne andò. Pensai: Questo non lo vedo più. Lo rividi ancora e non è più uscito dalla mia vita».
Così è diventata la Signora delle chiavi?
«La famiglia di Massimo faceva chiavi da sette generazioni, la vecchia azienda era stata ceduta e Massimo aveva deciso di ripartire da zero con la Keyline, trascinando anche me. Ho portato la mia esperienza diversa, ho in qualche modo un passato da metalmeccanico e uno da commerciale. Siamo partiti da tre milione e mezzo di fatturato e siamo arrivati a oltre 30 milioni di euro, nonostante la crisi. Facendo un prodotto come la chiave non è male. Ci occupiamo di sicurezza, collaboriamo con Scotland Yard e con la Polizia Cinese».
Come è Mariacristina madre?
Mi sono scoperta molto emozionata per il matrimonio di mio figlio Alessandro, 30 anni. Mia madre Anna Maria, piemontese, era un carabiniere, un generale. La ricordo in tutti i battesimi col cappello, beh! sono andata a comprarmi un cappello per la cerimonia! Mi sono sposata due volte in municipio e ora ho accompagnato mio figlio in chiesa. Mi ha costretto a fare una riflessione, Alessandro mi ha dato una lezione. Questo mi sta dando un'opportunità di rielaborazione anche del mio divorzio, al di là del fatto di essermi presentata in cappello come la nonna.
Conserva sogni?
«Sto facendo una seconda lista di cosa vorrei fare dopo i 60 anni. E questo mi ha tranquillizzato: i viaggi che vorrei fare, le lingue che vorrei imparare, continuare a studiare! Lo scorso anno ho frequentato la London Business School, sono partita col mio quaderno, le penne, il mio astuccio di matite colorate col temperalapis. Conservo la cucitrice che era di mio padre, non esco mai senza l'evidenziatore azzurro che è il mio colore, il colore del cielo di Usseglio».
Edoardo Pittalis
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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