Gian Arturo Ferrari
Non ho mai litigato tanto, e di sicuro non litigherò

Giovedì 24 Gennaio 2019
Gian Arturo Ferrari
Non ho mai litigato tanto, e di sicuro non litigherò mai più con nessuno, quanto ho litigato con Cesare De Michelis. Per un trentennio, grosso modo. Non eravamo amici d'infanzia o di giovinezza, non avevamo in comune radici, frequentazioni, ambienti, consuetudini. Ci conoscevamo distrattamente, da sempre, per via del comune mestiere editoriale e anche per via della comune provenienza accademica. Ma io da tempo avevo gettato la tonaca alle ortiche, mentre lui la sua se la teneva ben stretta. Diventammo amici sulla terrazza di via Fratelli Ruspoli, per una cinquina dello Strega. Me lo trovai davanti e feci fatica a riconoscerlo. Era completamente glabro, niente capelli, niente barba, niente baffi, niente sopracciglia, la pelle gialla e lucida, sembrava cuoio fresco. Solo gli occhi erano rimasti i suoi, azzurrissimi, a metà tra un bambino e un orco crudele. Le dame del premio giravano alla larga, nessuno sapeva che cosa dirgli, aveva il vuoto intorno.
Ci mettemmo a chiacchierare, di tutto, compreso il suo cancro al polmone. Non sapevo ancora che, sdraiato sul tavolo operatorio, aveva chiesto imperiosamente, come era suo costume, una sigaretta. Il chirurgo, professore di Padova e dunque suo collega, gliela aveva data, tanto ormai E lui se l'era fumata, lì, fino all'ultima boccata. Molti anni dopo, una notte a casa sua, a Venezia, mi avrebbe raccontato che la chemioterapia era stata indicibile. Delirava, aveva perso il senso della realtà, vedeva intorno a sé mostri e fantasmi, non sapeva chi era, non ricordava più come ne era uscito. Ma la sera romana in cui gli ero casualmente capitato vicino diventò per lui un'oasi in quel deserto, un primo segno di ritorno alla normalità.
TRA D'ALEMA E MONTALE
Ognuno riconosce i suoi dice Montale, il poeta che lui non amava e che io invece prediligo (litigate furiose), sta di fatto che ci riconoscemmo e che per trent'anni abbiamo goduto del raro piacere di riconoscerci l'un l'altro. Naturalmente le liti erano un gioco. Nel senso però in cui si gioca a bridge o a scacchi, quando cioè bisogna saper giocare(....). Ci davamo appuntamento per poter litigare in santa pace. Su tutto. Lui sempre all'attacco, io sempre in difesa. Partiva sempre accusandomi di essere dalemiano. Figurarsi. Poi ci si inoltrava nel labirinto delle sue contrapposizioni. Non Machiavelli, ma Guicciardini. Non Manzoni, ma Nievo. Non Montale, ma Ungaretti. Non Gianfranco Contini, ma Vittore Branca. Non Roma, ma Venezia. Di Milano inutile parlare, non esisteva. Anche se da Milano veniva ciò che aveva letteralmente dato forma alla sua vita, cioè sua moglie Emanuela.
Ma contro ogni apparenza non era un bastian contrario. Era solo terrorizzato dall'ipocrisia e più ancora dal conformismo, in particolare dall'ipocrisia e dal conformismo di sinistra. Conosceva bene la debolezza del ceto intellettuale italiano, accademico ed editoriale, la nostra debolezza. Sapeva quanto fosse intimamente fragile a paragone degli omologhi francese, inglese o tedesco. Vagheggiava la repubblica delle lettere non per passatismo o snobismo, ma per ridare coscienza di sé, della propria funzione, della propria autonomia e della propria dignità a un ceto intellettuale molle e plasmabile, propenso ad ammantare di retorica la propria inclinazione servile. Urlava e sbraitava per rendere più difficili, se possibile impossibili, le posizioni sfumate che nascondono il compromesso, la ragionevolezza scivolosa, l'assennatezza a buon mercato, la presunzione di essere, sempre e comunque, dalla parte giusta(....)
TRIADE VIRGILIANA
Era un riformista. Era un socialista. Negli anni, e non furono pochi, in cui questa divisa era diventata un insulto, in cui quelli che l'avevano indossata, e vantaggiosamente indossata, la rinnegavano, lui la portò sempre e con orgoglio. Così come era orgoglioso di essere protestante e orgoglioso di appartenere a una delle grandi famiglie della cultura italiana, dalla triade virgiliana di Eurialo, Niso e Turno (che era suo padre, Eurialo e Niso gli zii) alla generazione dei figli, cui lui apparteneva. «Noi De Michelis diceva fratelli e sorelle, siamo tutti professori universitari». Ordinari, aggiungeva, tanto per precisare. Senza parlare dei cugini. Non era amato da Bettino Craxi, che, senza mezzi termini, gli consigliò di stare alla larga dalla politica. Di De Michelis ne bastava uno e del resto prendesse esempio da come lui medesimo, Craxi, si era condotto con il suo di fratelli. Cesare non si stupì, sapeva come va il mondo, e per questa stessa ragione non si meravigliò più che tanto quando venne a sapere che la procura gli ronzava intorno. Pensavano, beata ingenuità e anche, se vogliamo, sopravvalutazione dell' editoria, che dalla Marsilio transitasse denaro diretto al partito. Furioso ma filosofico, preparò la valigetta con la biancheria, il pigiama, lo spazzolino da denti e si preparò al peggio. Che non venne, il fumus si dissolse, rimase, per lunghi anni, una pregiudiziale acrimoniosa nei suoi confronti.
Viveva nei libri. Qualsiasi cosa pensasse, dicesse o facesse sempre di libri si trattava. Reputava anche, e questa era la gran cosa che ci univa, il fondamento incrollabile della nostra amicizia, che non ci fosse vita migliore. Più desiderabile o semplicemente per noi possibile. Per questo nella sua visione del mondo non c'era separazione, tanto meno opposizione tra accademia ed editoria. Libri del passato e libri del presente, entrambi libri del futuro. In ogni caso sempre e solo libri. Annidato nei libri, passava le sue giornate leggendoli, scrivendone, parlandone. Quando non era impegnato in una di queste tre attività, ritagliava dai giornali gli articoli che parlavano di libri e poi andava a mettere il ritaglio dentro al libro di pertinenza, che si veniva gonfiando come un sandwich (...). Cesare era così, era diventato così. Eruttava scorie, lapilli, lava, cenere, pietra pomice. Poi indicava con un dito. E lì c'era la gemma, la pietra preziosa. (...)
L'IMPRENDITORE
Fervido sostenitore dell'impurità radicale dell'editoria, del suo traballante camminare sul filo teso, sempre a rischio di cadere nel dilettantismo intellettuale da una parte o nella volgarità commerciale dall'altra, Cesare De Michelis è stato anche un grande imprenditore culturale. (...) Quando venne insignito del titolo di Cavaliere del Lavoro, ne fu schiettamente felice. Eppure lui ce l'aveva fatta. Si era caricato tutto sulle spalle, la nascita di una piccola casa editrice, la sua trasformazione in media, i problemi di liquidità, la sede decentrata rispetto alla capitale dei libri, il partito socialista, il merito culturale, le necessità commerciali(....). E alla fine, come nelle favole, tutti i pezzi si erano miracolosamente combinati. La fisionomia culturale garantita, la prospettiva imprenditoriale assicurata.
Cesare ha avuto la fortuna di morire quando aveva ottenuto tutto ciò che voleva. Che ci manchi è ovvio, quanto ci manchi lo si può forse dire parafrasando Lorca, un poeta di cui non so che cosa lui pensasse. Tarderà molto a nascere, se pur nasce, un editore così schietto, così ricco d'avventura. Cantiamo la sua eleganza con parole che gemono.
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