«Era un genio della moda globale c'era bellezza anche nella sua follia»

Mercoledì 20 Febbraio 2019
«Era un genio della moda globale c'era bellezza anche nella sua follia»
Giovanni Gastel, milanese, 63 anni, nipote di Luchino Visconti, da quaranta il più importante e quotato fotografo italiano di moda. Un vero maestro. Karl Lagerfeld se lo ricorda così: «Era un genio. E un'epoca, purtroppo, sta finendo. Lui e Mendini, morto due giorni fa, mi hanno insegnato tutto. Il sistema moda è cambiato, non potrà più nascere uno come Karl».
Quando vi siete conosciuti?
«L'ho incontrato a Parigi. Avevo fatto alcuni lavori per Chanel. Erano scatti molto belli; ricordo che in uno di questi la modella, vestita da Karl, stava su una torre medievale. Ho vissuto a Parigi 12 anni e ci siamo frequentati e incrociati, nei salotti, alle feste, con amici. Karl aveva una caratteristica unica al mondo. È riuscito a mantenere viva l'anima di Coco, a continuare la tradizione di Mademoiselle come se fosse viva. E lo stesso ha fatto con Fendi. Non ha mai prevaricato la storia, lo stile e la tradizione delle maison per cui ha lavorato. E questo lo trovo di una modestia straordinaria. Oggi i designer arrivano, s'impadroniscono di un marchio, e lo rivoltano come un calzino».
Karl Lagerferld è stato definito un artista rinascimentale.
«Ha differenziato il suo lavoro in modo poliedrico senza che la vena creativa si esaurisse mai».
Com'era vederlo, dal vivo, nei salotti della moda parigina?
«Era molto impostato. Un essere simbolico, ecco. Una figura mitica, l'essenza della moda. Con la sua serietà e frivolezza, la necessità ironica e tragica di apparire. Una volta Emanuele Pirella, uno dei più grandi pubblicitari del mondo, era andato a Parigi da lui per proporgli alcune idee sulla campagna per un profumo del marchio Karl Lagerfeld. Arrivato davanti alla porta chiusa, gli dice: Senta, sono Pirella. Ho qui con me i disegni. Niente, Karl non voleva farsi vedere: la riunione voleva farla con un filtro. Pirella fu costretto per tutto il tempo a passargli i disegni da sotto».
Si dice non abbia avuto amici, tranne la gattina Choupette.
«È probabile che di amici ne abbia avuti pochi. È la solitudine dei numeri primi, l'esercizio instancabile del culto di se stessi. Però è da quella solitudine che gli artisti lavorano, da quella solitudine che ne salvaguardia l'unicità».
Lo ha mai ritratto?
«Le sue creazioni, sì. Lui, no. Posso dire di aver fotografato tutti i grandi della moda, ma lui no».
Come lo avrebbe immortalato?
«Avrei cercato di rispettarne l'estraneità alla realtà, anche estetica. Era l'astrazione di se stesso, del suo talento, della sua visione. C'era bellezza nella sua follia, nei suoi fanali neri. Quando scatto cerco l'anima ma non credo me l'avrebbe concessa, si difendeva con le sue paratie stagne estetiche. Ma era molto generoso. Quando morì Gianni Versace si propose di aiutare la maison, anche se poi non fu necessario. Sa, alla morte di Gianni rischiava di saltare la collezione e lui si propose. Così, gratis. Lo trovai un gesto di grande generosità e di affetto nei confronti di Gianni».
Qual è l'eredità più grande di Karl Lagerfeld?
«Era l'ultima diva, come Maria Callas. In fin dei conti, penso sia Karl Lagerfeld la sua opera d'arte. Ha fatto del suo corpo un'opera di moda e arte».
Silvia Vacirca
© RIPRODUZIONE RISERVATA
© RIPRODUZIONE RISERVATA

PIEMME

CONCESSIONARIA DI PUBBLICITÁ

www.piemmemedia.it
Per la pubblicità su questo sito, contattaci