L'espulsione impossibile di Chelbi, lo spacciatore

Venerdì 27 Aprile 2018
LA STORIA
VENEZIA Questa è la storia di un'espulsione impossibile. Non basta una sfilza di condanne perché uno spacciatore algerino, tristemente noto a Vicenza per fatti di droga e di violenza, venga rispedito nel suo Paese: ogni volta che un poliziotto o un giudice ci prova, viene fatta valere una legge che ne vieta il rimpatrio. L'ultimo caso è emerso ieri, attraverso una sentenza della Cassazione, che ha accolto l'ennesimo ricorso presentato da Mohamed Amine Chelbi.
I RICORSI
Non li ha sempre vinti tutti, questo 28enne che da anni fa parlare di sé le cronache beriche, ma evidentemente la pervicacia nel proporli ogni tanto dà i suoi frutti. Per esempio nel marzo del 2014 la Suprema Corte aveva rigettato la sua richiesta di ripristino dell'obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria, revocato a dicembre del 2013 in favore della custodia cautelare in carcere in quanto il magrebino si era reso irreperibile e continuava a delinquere: «La negativa personalità dell'imputato risulta lumeggiata dagli atti trasmessi dal pubblico ministero di Vicenza, indicativi di una attività delittuosa», aveva sottolineato il Tribunale della Libertà di Venezia. E anche nel marzo del 2015 Chelbi si era visto negare dagli ermellini l'ulteriore sconto di pena, chiesto in aggiunta alla riduzione già operata nel maggio del 2014 dalla Corte d'Appello rispetto alla condanna rimediata nel giugno del 2012 dal Tribunale berico, «in ordine a plurimi episodi di cessione di sostanze».
I REATI
Ma nel frattempo l'elenco dei reati aveva continuato ad allungarsi. Nel maggio del 2015 il ragazzo era stato sorpreso dalla polizia mentre cercava di disfarsi della cocaina e dell'hashish: dopo un tentativo di fuga, l'algerino era stato arrestato e ammesso ai domiciliari. Ma l'ipotizzata espulsione era stata esclusa, in quanto Chelbi risultava sposato con un'italiana e padre di un bambino. Nel giugno del 2016 l'uomo era finito nuovamente in manette, in quanto riconosciuto come uno dei protagonisti di una spedizione punitiva in un call center, avvenuta nell'ottobre del 2015. In seguito a quel fatto, la stretta della polizia aveva permesso di espellere alcuni pusher, ma non lui, in quanto appunto compagno di una vicentina e papà di un bimbo nato in Italia. Nel novembre del 2016 la guardia di finanza l'aveva poi arrestato per un altro giro di cocaina, eroina e hashish. Solo una volta era invece toccato all'algerino il ruolo della vittima: nel febbraio del 2013 era stato sfregiato da un connazionale, che però a marzo del 2016 era stato assolto perché lo stesso Chelbi non si era presentato in aula.
LA SENTENZA
È su questo sfondo che si inserisce l'ultima sentenza della Cassazione. Nel maggio del 2017 il magrebino aveva patteggiato un anno e 1.600 euro sempre per spaccio. Ma in aggiunta all'accordo fra accusa e difesa, il giudice di Vicenza aveva disposto anche «l'espulsione dell'imputato dal territorio dello Stato». Chelbi aveva fatto ricorso, lamentando fra l'altro il «vero e proprio travisamento degli atti processuali che sarebbe stato posto a base della ritenuta pericolosità sociale» del condannato. Ecco, la Suprema Corte non è dovuta arrivare a vedere se il pregiudicato è socialmente pericoloso o meno: codice alla mano, le è bastato verificare che solo in caso di patteggiamento allargato, cioè di applicazione di pene superiori ai due anni, può scattare il rimpatrio di un delinquente.
Angela Pederiva
© RIPRODUZIONE RISERVATA
© RIPRODUZIONE RISERVATA

PIEMME

CONCESSIONARIA DI PUBBLICITÁ

www.piemmemedia.it
Per la pubblicità su questo sito, contattaci