L'ASCESA
NEW YORK Anche negli Usa lo conoscevano in pochi il giorno in cui fu

Domenica 22 Luglio 2018
L'ASCESA
NEW YORK Anche negli Usa lo conoscevano in pochi il giorno in cui fu annunciato il suo ingresso nel consiglio di amministrazione della Fiat nel 2003. L'ascesa di Sergio Marchionne dalla sede canadese della società londinese di consulenza Deloitte e Touche alla dirigenza del Lonza group era passata inosservata fino a quel punto agli occhi della grande industria e della scena nazionale statunitense. Quell'anonimato era destinato però ad una vita breve, per quanto il figlio del maresciallo Concezio non si sia mai curato di promuovere la sua visibilità agli occhi del pubblico.
Gli americani hanno imparato a conoscerlo per un uomo di poche parole, sempre incisive e spesso impietose, con le quali si è fatto strada in tutto il mondo e all'interno dell'industria dell'automobile. La sua figura è particolarmente amata, un po' per lo stile così stringato in tempi di eccessi generalizzati nella vita pubblica, e un po' perché il suo successo si è legato alla Chrysler, la casa di Detroit che più si è prestata negli anni a ringiovanire i fasti della favola di Cenerentola, con il risultato di incoronare principi che le hanno fornito le elusive scarpine ogni volta che aveva iniziato a zoppicare.
IL SALVATAGGIO
Il mito del principe azzurro per Marchionne si è materializzato nel 2008, quando la Chrysler insieme alla General Motors era già sulla soglia della bancarotta. La squadra di salvataggio inviata da Obama a Detroit si scontrò fin dai primi giorni con la chiusura mentale dei manager delle due aziende, gli stessi che le avevano portate alla rovina negli ultimi anni puntando ad occhi chiusi sulla ricchezza insperata che veniva dei titoli derivati basati sui mutui immobiliari tossici, mentre i brand automobilistici andavano a rotoli. Negli incontri con l'italo canadese invece, che nutriva l'ambizione impossibile di impossessarsi dell'azienda senza cacciare un dollaro, l'intesa fu praticamente immediata. «Quando lui parlava stavamo tutti a sentirlo come rapiti mi ha raccontato anni dopo lo zar di quel salvataggio Steve Rattner non ci sembrava vero poter ascoltare un linguaggio che nessun altro sembrava capace di parlare a Detroit. Ho avuto con Marchionne scambi verbali molto forti, ma quando abbiamo deciso di concedere la seconda tranche di aiuti governativi alla Chrysler, quella da 8,1 miliardi di dollari, ci era chiaro che stavamo puntando i soldi su di lui, e non sull'azienda».
LA JEEP
Lo stesso apprezzamento gli è venuto da Obama, che poi scelse la Chrysler nel 2011 come prima tappa per festeggiare il successo del salvataggio. Nel giro di soli due anni la nuova Crhysler riemersa dalla bancarotta sotto la guida di Marchionne era tornata al primo utile operativo, e aveva riaperto le liste di impiego nella storica fabbrica di Sterling Heigts. La riscossa è proceduta con il risanamento del core business' dei pickup costruiti dalla Dodge, a scapito della linea di berline che le due gestioni precedenti avevano comunque umiliato, svuotandole di ogni contenuto originale.
Il miracolo che ha dato il senso alla favola ancora una volta è stata la Jeep, già artefice di passate rimonte per il gruppo e per i passati possessori del marchio. Ma il portfolio della casa è comunque rimasto incompleto, così sbilanciato com'è in direzione dei truck. Ed è questa consapevolezza ha portato Marchionne a lottare per quanto ha potuto negli ultimi anni per trovare il partner capace di completare e l'identità della Fca, e traghettarla verso il prossimo decennio. Su questa strada ha riscosso anche la rara approvazione di Donald Trump: «Sergio è il mio ceo favorito tra i dirigenti dell'auto», ha detto l'attuale presidente degli Usa; anche se si riferiva alla singola promessa di espandere la produzione in Michigan, una piccola goccia nel mare di attività che ha segnato l'attività del manager alla conquista degli Usa.
Flavio Pompetti
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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