E Napolitano processa il renzismo «Punita l'autoesaltazione del Pd»

Sabato 24 Marzo 2018
E Napolitano processa il renzismo «Punita l'autoesaltazione del Pd»
IL CASO
ROMA «Autoesaltazione». Una parola puntuta come freccia al curaro, che Giorgio Napolitano adopera, scaglia addosso al Pd nel suo veemente intervento come presidente del Senato per un giorno. Un intervento a suo modo irrituale, che inaugura la legislatura numero diciotto, e che piomba addosso a un Pd ancora tramortito per la scoppola elettorale, spandendo sale sulle ferite.
L'INTERVENTO
«Gli elettori hanno premiato straordinariamente le formazioni politiche di radicale contestazione e rottura rispetto al passato», punendo il Pd «che ha subito una pesante sconfitta», attacca il presidente emerito. Il motivo? «Ha molto poco convinto l'autoesaltazione dei risultati ottenuti negli ultimi anni da governi e partiti di maggioranza». Martella ancora Napolitano, rispolverando la sua matrice di uomo di sinistra di tradizione socialdemocratica: «La contestazione è scaturita da diseguaglianze, ingiustizie, arretramenti di vasti ceti», nonché per la percezione di «un cronico, intollerabile squilibrio tra Nord e Sud, tale da generare una dilagante ribellione nelle regioni meridionali». L'aula ascolta muta, attonita e interessata. Ascolta in silenzio Matteo Renzi, così come Luigi Zanda e gli altri del Pd.
Al termine, giudizi contrastanti. «Ingeneroso», l'aggettivo che giurano avere sentito dalle parti dell'ex leader del Pd. «Il discorso di Napolitano mi è piaciuto molto, l'ho apprezzato», le parole del capogruppo uscente Zanda prima di recarsi all'auditorium per un concerto serale. «Molto buone le parole sull'Europa, è quello il tema centrale», l'apprezzamento di Emma Bonino. Quanto a Paolo Gentiloni, di fatto finito anche lui sul banco degli imputati in quanto governo in autoesaltazione, da Bruxelles a precisa domanda ha risposto così: «Massima considerazione per le parole di Napolitano, poi la discussione politica ovviamente è aperta».
Irrituale, a sorpresa, duro e circostanziato quanto si vuole, fatto sta che con questo discorso Napolitano apre di fatto il processo politico al renzismo, ne assume quasi la leadership, intavola quella discussione sulle sconfitte che l'ex leader, è l'accusa che gli fanno in tanti, non ha mai voluto aprire e men che meno condurre fino in fondo, a cominciare dal referendum passando per le sconfitte in varie elezioni locali. Non il classico togliersi i sassolini dalle scarpe, quanto lanciare macigni di critiche all'indirizzo del Nazareno, della politica da lì elaborata, del gruppo dirigente che da lì guida i dem da alcuni anni. C'è anche una versione ulteriore dell'ira napolitaniana, e si riferisce ad alcune sortite di esponenti renziani, di Matteo Orfini sicuro, che hanno imputato ad alcune scelte di Napolitano, tipo il governo Monti, la causa non ultima dei successivi rovesci elettorali.
SORRISI E LITI
Nel giorno dello scontro all'arma bianca nel centrodestra, tra i dem a tanti torna il sorriso. «Finalmente vi occuperete del centrodestra che litiga e si dilania, e non più del Pd», dicono alcuni parlamentari ai cronisti. «L'abbiamo capito, le cosiddette aperture al Pd sono per usarci per i loro scontri interni», la tesi di Gennaro Migliore. «A che sono candidato oggi, ah ah», se la ride Dario Franceschini, sempre tirato in ballo per trattative sottobanco più o meno inventate. Anche al Senato il giochino di lisciare il pelo ai dem fa capolino, sicché circola la voce che i grillini potrebbero convergere su Zanda (il capogruppo uscente ha pure un colloquio riservato con uno di loro in un corridoio a fianco dell'aula), ma in serata dal Pd stoppano tutto: «Non c'è nulla, assolutamente nulla».
Ma non sarebbe il Pd se non ci fosse qualche elemento di lite interna. Magari non proprio lite, ma qualche braccio di ferro non si nega a nessuno. I capigruppo, ad esempio. Il Pd non li ha ancora né scelti né votati, lo farà tra lunedì e martedì. Orlando, Zanda e altri hanno chiesto «discontinuità» con il renzismo, il che tradotto per i capigruppo significa che l'accoppiata Guerini-Marcucci non va bene. Dunque? Circola l'ipotesi che resti Marcucci al Senato e si possa andare su Delrio alla Camera. In serata i due, Guerini e Delrio, prendono insieme un aperitivo alla buvette della Camera, i giornalisti chiedono lumi, loro tergiversano, sorridono, alla fine Guerini azzarda «se si va su Delrio come discuterne autorevolezza e prestigio?», l'altro lo guarda sorpreso, poi scoppiano a ridere. «Io non ne so nulla, proprio nulla», la versione di Delrio.
Nino Bertoloni Meli
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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