Ha smesso di giocare nel 1978. Da allora ogni volta che un petrarchino che indossa

Lunedì 31 Luglio 2017
Ha smesso di giocare nel 1978. Da allora ogni volta che un petrarchino che indossa la maglia da estremo combina due cose giuste, qualcuno azzarda: Ecco il nuovo Lelio Lazzarini!. Ma l'illusione dura lo spazio di un momento. Purtroppo. «Ho iniziato a giocare a 16 anni racconta perché in classe con me c'era Mario Garcea che due volte a settimana veniva a scuola con un borsone nero con scritto Petrarca. Io non sapevo neanche cose fosse il rugby, ma ho pensato che di qualsiasi cosa si trattasse era sempre meglio che trascorrere i fine settimana in campagna con i miei genitori. Così sono andato al Tre Pini».
Trafila poca. Un annetto con la formazione riserve e poi, non ancora diciasettenne, il debutto in Prima squadra. «Dove ho avuto la fortuna di conoscere gente come Lando Cosi, Ivano Ponchia e Ciano Luise che mi hanno insegnato tanto, che mi hanno fatto capire cose fosse il Petrarca. Ricordo ancora bene che ho debuttato al Tre Pini affrontando la Gbc di Milano, stagione 1968-69, la prima di Memo Geremia allenatore. Poi i compagni di squadra, Baraldi, Brevigliero, Valier, Boccaletto che per me sono come fratelli. Insieme abbiamo vinto tanto».
Il palmares di Lazzarini dice di 6 scudetti, tra il 1970 e il 1977, conditi da 24 presenze in nazionale. «Due cose ci tengo a precisare. La prima è che a quei tempi la nazionale disputava due partite all'anno e non una decina come adesso; la seconda è che i miei scudetti sono 6 in dieci anni, pur con un anno di interruzione. Che è quello dove l'allenatore era Marcello Fronda, un vero signore e un allenatore preparato, ma con il quale non mi divertivo. E se non mi divertivo per me non aveva senso giocare».
Al rugby Lazzarini ha dato gambe fratturate (ora con protesi) e una spalla rotta. «Ma se potessi tornare indietro mi darei un'altra volta al rugby. Ho fatto quasi sempre l'estremo, ma a volte ho giocato anche centro o apertura, in particolare l'anno in cui c'erano Babrow e Mattarolo, perché ero quello che si adattava meglio a ruoli diversi. Penso che se avessi iniziato come mediano di apertura, forse avrei potuto fare qualcosa in più. Ma mi accontento».
«Ogni tanto continua mi chiedono come mi troverei a giocare oggi. Non so. Di sicuro la parte atletica è diventata più importante e la mia velocità non potrebbe bastare. Mi dovrei allenare molto di più di quanto facevo nel mio periodo, mi dovrei irrobustire e non so se avrei voglia di farlo, se mi divertirei. Anche perché sul rugby professionistico ho una mia idea». Che ci espone. «A parte pochissime eccezioni, nessuno campa solo con il rugby. Il vero professionismo era quello inventato da Memo. Tu giocavi e grazie al rugby Geremia ti trovava un posto di lavoro che garantiva uno stipendio fisso e una pensione. Futuro assicurato. Quanti tra i giocatori italiani di oggi hanno una simile certezza?». Gli chiediamo se ha qualche rimpianto legato al rugby. «Più che un rimpianto un dispiacere. Che mai nessuno al Petrarca mi abbia chiesto di allenare i calciatori. Credo che avrei potuto insegnare qualcosa. Ho avuto a mia volta un maestro nella persona di Paolo Sturaro che mi ha spiegato cose basilari che ho tenuto a mente fino all'ultima partita che ho giocato. Mi sarebbe piaciuto trasmetterle ad altri petrarchini, ma non ho avuto l'opportunità di farlo».

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