Poteva vivere di rendita, ma ha venduto tutto per fare etichette: ora ne è il re

Lunedì 4 Marzo 2019 di Edoardo Pittalis
Francesco Celante
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Francesco Celante, trevigiano di Chiarano, è titolare della Rotas Italia dalla quale escono in un anno 400 milioni di pezzi di ottomila varietà. «Avevo un allevamento di trote, quando sono morte ho messo in atto il piano B». Inizia creando stiker e poi si specializza inventando tagliandi per tutti i prodotti. «Un viaggio in America mi ha fatto capire cosa volevo fare».

L'INTERVISTA
«Io metto l'etichetta a tutti. E a tutto. Io sono completamente matto, ero proprietario in centro a Treviso dell'allora albergo Il Bersagliere e del palazzo di fronte in via Barberia, ho venduto tutto per finanziare l'azienda e non so se i figli siano proprio contenti. Avrebbero potuto vivere di rendita, senza lavoro. Forse. Ma sicuramente senza la dignità che ti dà il lavoro». Francesco Celante, trevigiano di Chiarano, è titolare della Rotas Italia (rotas è una delle parole latine del quadrato magico, un enigma che dura da duemila anni) dalla quale escono in un anno 400 milioni di etichette di ottomila varietà diverse. «Prodotti senza etichetta ormai non esistono». Un fatturato di 16  milioni di euro, 150 dipendenti tra la sede centrale trevigiana e le altre di Firenze e Barcellona. Tre figli che lavorano con lui: Donella, Edoardo e Diletta. «Sono un padre scomodissimo. Li ho rovinati. Il figlio vuole essere meglio del padre, ma con un sacramento così davanti è dura. Ma almeno abbiamo risolto in fretta il cambio generazionale, qui la media è di 37 anni, sono io che sballo».

Celante, sorridente, papillon immancabile, brevetto di pilota d'aereo, è capitano di una squadra di polo: «Volevo fare il rugbista, ma non avevo il fisico e così ho scelto lo sport a cavallo, naturalmente da capitano. Ho sempre avuto la vocazione del capoclasse, sono anche ufficiale dei Bersaglieri».

Cosa vi ha fatto conoscere in tutto il mondo?
«Siamo un'azienda tecnologica molto specializzata, diamo strumenti, diamo anche dei sogni. Stampare un'etichetta con la lava dell'Etna sembrava impossibile, la lava è un materiale durissimo quasi come il diamante, ma noi abbiamo ingegneri non soltanto stampatori. Su quell'etichetta ci puoi accendere i fiammiferi! E le etichette con inserito lo Swaroski hanno anche il certificato di garanzia. Abbiamo fatto un'etichetta con una spada in metallo in rilievo, al mondo non c'è nessuno in grado di farlo a livello industriale. Ho stampato etichette impastate col vino rosso. Da poco abbiamo rappresentato l'Italia a una fiera di nanotecnologie. Non facciamo solo etichette, sia chiaro, ci stiamo specializzando nell'impronta digitale. Siamo avanzati nel campo della contraffazione, tanto da essere stati chiamati in Parlamento per parlare proprio del sistema anticontraffazione. Abbiamo fatto anche le etichette per controllare gli accessi in occasione di un G8. Se abbiamo questo passato, avremo un futuro anche migliore».

La realizzazione più difficile?
«Un'etichetta per conto della Snam, rete gas, che doveva essere applicata su tubature di acciaio per resistere a sollecitazioni meccaniche, alla sabbiatura, a sollecitazioni termiche che vanno da -40 a + 100 gradi, sempre in immersione, a viti di ferro e con una garanzia di funzionamento di almeno dieci anni. Da dodici anni continuano a ordinarle. Adesso lavoriamo per una multinazionale con diecimila dipendenti, chiedono un'etichetta particolare. Abbiamo vinto il concorso col ministero per fornire un'etichetta sui terremoti: sensori in grado di registrare gli effetti, uno spin-off sofisticato che registra i movimenti tellurici e puoi controllare sul cellulare. Un supersensore studiato per registrare su un uomo le pulsazioni e se cade è in grado di mandare immediatamente un segnale».

Come è arrivato a realizzare la Rotas?
«Mio padre Taddeo faceva il fattore per la famiglia di un conte che aveva terreni nell'Opitergino. Aveva la patente numero 6 della provincia di Treviso. Mia madre casalinga è morta d'infarto quando io frequentavo la quarta ginnasio e sono cresciuto da solo con un padre pronto sempre alla battuta. Ero un pessimo allievo del Canova, dopo la morte della mamma sono passato al Pacinotti per diplomarmi come perito chimico. Mi sono iscritto in Economia a Ca' Foscari e nel 1964 ero uno dei 14 studenti che sono andati negli Usa all'Esposizione mondiale, nell'anno in cui è stato ucciso Kennedy. Siamo partiti in nave dall'Inghilterra, 1800 studenti da tutta Europa, adesso lo chiamano Erasmus. Negli Stati Uniti ho visto il futuro: videcitofoni, case sospese Alla General Motor ho visto motori a reazione montati su auto! Quando sono rientrato mio padre mi fa trovare un'ansa a Casier del Sile perché avrei dovuto coltivare trote e fiori. Le trote sono morte subito, forse avvelenate».

Dalle trote alle etichette, un passaggio complesso?
«Per pagarmi le spese americane avevo lavorato sei mesi alla CartoPiave che allora dipendeva dalla Zanussi. Faccio notare che quel lavoro si può organizzare come una catena di montaggio e gente che è lì da tanti anni non ci sta a prendere ordini da un ragazzino, telefona anche il parroco: Ma siete pazzi?. Mi propongono un lavoro fisso in Spagna, per convincermi mi ha preso sotto braccio un dirigente che poco dopo è morto in un incidente aereo. Io negli Usa avevo visto le stiker, le etichette autoadesive, sconosciute in Italia; avevo già un'idea precisa una volta rientrato».

Quello che chiama il Piano B?
«Morte le trote, è scattato il Piano B, gli Stiker. Nel frattempo, da Economia sono passato a Sociologia dove mi sono laureato. Sono convinto che l'impresa è l'ospedale della dignità: gli ospedali curano le malattie, l'impresa la dignità delle persone. Vuol dire che il lavoro ti deve dare dignità, che non può essere solo sacrificio e obbligo».

Torniamo agli Stiker?
«Fino a quel momento in Italia le etichette avevano un formato fisso, si bagnavano e si incollavano a mano. L'autoadesivo si poteva fare solo in rotolo, ma in Italia le macchine stampavano in piano. Ho mandato due operai che parlavano soltanto dialetto trevigiano in un centro di ricerca giapponese a imparare, senza ricerca non vai da nessuna parte, so benissimo che è più economico copiare. Siamo alla metà degli Anni '60, compro una macchina all'estero, ma al primo guaio ci vogliono mesi per le riparazioni. Sono andato in Svizzera a vedere, la macchina è delicata coma un orologio, e scopro che si facevano fare i pezzi in Italia! Il presidente dell'Associazione Industriali di Varese che mi ha messo a disposizione la sua officina per sette mesi e lì ho creato il prototipo della macchina per stampare le etichette e di quella per applicare le etichette».

Come è il Veneto oggi?
«Nutro grande fiducia, ma siamo rimasti indietro perché non siamo riusciti a dare valori, o più esattamente abbiamo dato valori economici e non morali. Per crescere bisogna pescare il meglio dal mondo, ma lo Stato pone mille ostacoli: ci sono problemi ad assumere un ingegnere informatico con referenze a Cambridge solo perché è una donna vietnamita. Abbiamo assunto due giovani africani arrivati coi barconi e ospitati qui alla caserma Serena e ora rischio di perderli: ai due hanno rifiutato l'asilo politico, eppure hanno un lavoro a tempo indeterminato. Li proteggeremo in tutti in modi. Bisogna avere valori perché altrimenti hai sempre paure. La paura degli altri è contro il futuro».

Ha sogni il signor Celante?
«Il primo, in realtà, è un progetto: un ponte. Dietro l'azienda ci sono alcuni ettari di terreno divisi da un fiume largo trenta metri, mi piacerebbe un ponte completamente in legno, del resto l'etichetta stessa è un ponte tra il prodotto e il cliente. Mi piacerebbe che la gente lavorasse, quando è possibile, all'aperto, in un parco attrezzato. Ma sogni veri no, dormo pochissimo, alle 4 del mattino mando mail».
Ultimo aggiornamento: 6 Marzo, 10:17 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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