Rosa, Angela, Maria... le vite segrete ​a Nordest delle donne anti-mafia

Lunedì 18 Marzo 2019 di Donatella Vetuli
Una foto dal film per la tv "Donne di mafia"
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Mai più con uomini d'onore, mai più nelle ndrine, tanto meno custodi di un feroce patto di sangue. Rosa, Angela, Maria, Emma, Francesca e Antonietta sono fuggite dalla Calabria, chi in Veneto chi in Friuli, lontane oltre mille chilometri dalle case dove sono cresciute, decise ad abbandonare un mondo di violenza, e un destino già segnato per i figli. I loro sono nomi di fantasia, le chiamano femmine ribelli, oppure madri coraggio, ma tutte rappresentano un nuovo fronte contro la criminalità organizzata, quella delle donne che rifiutano famiglie malavitose per aprire una breccia anche nella più irriducibile delle cosche. Sono già sei quelle nascoste tra Veneto e Friuli, grazie al recente protocollo di intesa tra la Procura nazionale antimafia, l'associazione Libera contro le mafie, il dipartimento pari opportunità della Presidenza del Consiglio, il Tribunale per i minorenni, la Procura per i minori e la Procura distrettuale di Reggio Calabria, a cui si aggiunge il sostegno della Cei. Afferma  l'avvocato dell'associazione guidata da don Luigi Ciotti, Vincenza Rando, da sempre in prima linea per aiutare le donne: «Ognuna di loro ha una storia diversa, compresa quella di chi ha lasciato la propria terra dopo avere provato l'esperienza del carcere e vuole raggiungere i figli già allontanati dal nucleo familiare per intervento della magistratura». Ma tutte hanno impugnato la sola arma a loro disposizione, quella della ribellione. «Non sono considerate dallo Stato collaboratori di giustizia e neppure testimoni - aggiunge il legale -. In questo senso c'è ancora un vuoto legislativo». Quindi, nessuna particolare misura di protezione, nessun beneficio premiale. Ecco dunque l'appello di Libera: «Le abbiamo accompagnate a disegnare una nuova vita - spiegano i responsabili dell'associazione - . Occorre lavorare in modo molto riservato. C'è bisogno della collaborazione di tutti». Una rete associativa, di volontari, che se ne occupi, ad esempio, poi l'indispensabile aiuto economico offerto della Chiesa, e massima segretezza per proteggere chi ha osato alzare la testa contro la ndrangheta.
DALL'ALTRA PARTECome Angela, che oggi vive in Veneto. Invisibile per necessità, con un cognome che la ingabbia e un passato che vuole cancellare ma che può diventare l'esempio per tante altre. Questa la sua storia. Attraverso il tribunale calabrese ha saputo che esiste la possibilità di rivoluzionare la propria esistenza fino a pochi anni fa chiusa tra le aule di giustizia, gli istituti di pena, o, peggio, soffocata dal terrore di lutti, della lupara bianca e delle faide, a cui neppure i bambini possono sottrarsi. C'è un progetto a cui affidarsi, quello che il protocollo dell'antimafia chiama Liberi di scegliere, senza la necessità di denunciare nessuno dei parenti. Angela sceglie di stare dall'altra parte. Si lavora segretamente per la fuga, con i suoi figli, mille chilometri lontani, su, al nord. È un'attività complicata quella di preparare una specie di latitanza, rivela chi oggi la segue nel suo percorso di rinascita. Tacere, condurre la solita vita senza che nessuno possa sospettare il tradimento che infrange la regola tribale dell'omertà e della sottomissione, quel familismo da cui trae forza il malaffare.
PSICOLOGOUn passo dopo l'altro, per Angela, fino al momento in cui si chiuderà alle spalle la porta di casa, per dileguarsi nelle vie del suo paese dove magari è pronta un'auto dei carabinieri per portarla via. Oggi Angela lavora in una località segreta del Veneto con una cooperativa. Non è sola. Le associazioni coinvolte nel progetto la seguono, la segue anche uno psicologo perché reinventarsi una vita non è facile. Non tutte, come lei, sono riuscite a trovare un'occupazione. C'è, tra le altre sue cinque compagne giunte nelle nuove destinazioni del Nordest, chi fa solo la mamma, c'è chi è stata rintracciata dalla famiglia di origine e ha ricevuto minacce tanto da dovere cambiare ancora una volta casa, indirizzo, abitudini. C'è chi ha paura. Oppure chi ha ottenuto la comprensione del marito, chiuso in carcere. E poi ci sono i figli. Quello di Angela ha detto ai volontari che lo affiancano: «Io non mi riconosco più in mio padre».
«Le prime vittime della ndrangheta sono proprio i figli - afferma don Giorgio De Checchi, tra i referenti nazionali del progetto Liberi di scegliere e parroco a Sant'Anna di Piove di Sacco -. E le madri si fanno carico del loro futuro perché si sentono responsabili della vita altrui. Chi fugge lo fa soprattutto perché i figli siano liberi di intraprendere un'altra esistenza lontana dal rischio concreto di essere reclutati dalla malavita».
Ma c'è ancora tanto da fare. Un impegno faticoso, lo chiama don Giorgio, e non potrebbe essere altrimenti con le risorse economiche risicate e uno Stato, come sottolinea il sacerdote, che offre opportunità di riscatto, ma poi affida il recupero al solo volontariato. «Lo Stato - spiega De Checchi - deve fare quell'ulteriore passo per rendere effettivo l'aiuto alle persone che hanno deciso di cambiare vita. Grazie all'otto per mille della Chiesa riusciamo ad avere fondi per realizzare il nostro progetto, ma l'aspetto economico rappresenta oggi un limite molto serio».
Donatella Vetuli
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