Conti pubblici, le soprese
nell'eredità Letta

Venerdì 7 Marzo 2014 di Oscar Giannino
Oscar Giannino
Ma c’è o non c’è, un pasticcio sui conti pubblici ereditati dal governo Renzi? Molti elementi dicono di sì, e si tratta di fatti. Cerchiamo di comprenderli, evitando però di confondere i fatti con interessi e risentimenti politici, che nella finanza pubblica inevitabilmente sono sempre presenti. Renzi si sta attenendo a una linea di prudenza assoluta, caldeggiata dal Quirinale che vuole evitare ogni sbavatura rispetto al governo uscente, come non bastasse la procedura già abbastanza singolare seguita nell’avvicendamento a Palazzo Chigi.



«Il governo non ha nuovi compiti a casa assegnati da Bruxelles, sappiamo che cosa dobbiamo fare»: con queste parole ieri il premier ha cercato di gettare acqua sul fuoco, dopo la nuova retrocessione comminata il giorno prima dall’Europa a Roma.

Ad altrettanta prudenza si è rigorosamente attenuto il ministro dell’Economia, Piercarlo Padoan. Ciò che non si poteva immaginare era che provvedesse l’ex ministro tecnico, Fabrizio Saccomanni, a gettare benzina sul fuoco con dichiarazioni molto aspre.



Tono e parole di Saccomanni mostrano che il problema c’è, eccome. Anzi, di problemi ce ne sono due. Uno riguarda il merito dei conti ereditati dal governo Letta, rispetto a osservazioni venute da Bruxelles non l’altro ieri, ma mesi fa. L’altro è l’interpretazione da dare al famigerato limite del 3% di Pil come tetto al deficit pubblico annuale. E’ un fatto, che la Commissione Europea - di fronte al primo esame preventivo delle leggi finanziarie - sin dallo scorso 14 novembre avesse notificato a Letta e Saccomanni delle richieste di modifica. Il deficit pubblico strutturale italiano, che per il governo Letta era di un mero 0,3% nel 2014 e azzerato nel 2015, per la Commissione era invece stimato in nuova crescita, allo 0,7% nel 2014 e allo 0,9% nel 2015. Di qui una prima richiesta di misure aggiuntive. Intorno a 4 miliardi di miglioramento del saldo previsto dalla legge di stabilità per il 2014. A metà novembre, le previsioni della Commissione per la crescita del Pil italiano nel 2014 erano ferme a quota più 0,7%, rispetto all’1,1% previsto invece da Saccomanni. La cosa è ulteriormente peggiorata con l’aggiornamento delle stime di crescita della Commissione lo scorso 25 febbraio, quando il Pil italiano 2014 è sceso di un altro decimale di punto. Mezzo punto di Pil di minore crescita rispetto alle previsioni della legge di stabilità può comportare minori entrate ordinarie tra i 3 e 4 miliardi. Ed ecco che, sommando le diverse componenti delle osservazioni venute da Bruxelles, nella peggiore delle ipotesi siamo già intorno agli 8 miliardi.



La risposta che Saccomanni e Letta diedero alla Commissione fu articolata in tre parti. Rivolgendosi alla scena politica interna, il commento fu: «di solo rigore si muore». Alla Commissione e all’Ecofin, Saccomanni espresse la linea che, tra la spending review affidata a Cottarelli, il piano di privatizzazioni allora ancora in via di definizione, i 900 milioni attesi dalla rivalutazione delle quote di Bankitalia disposta con decreto legge a parte, i conti che a Bruxelles non tornavano nella legge di stabilità sarebbero comunque tornati entro febbraio. E la Commissione accettò la replica italiana, disponendo però che appunto entro fine febbraio il governo italiano avrebbe dovuto mettere per iscritto quanto aveva disposto, in aggiunta al bilancio preventivo approvato entro fine anno. Terzo punto: Saccomanni e Letta restavano dell’idea di aver diritto a un bonus sulla spesa per investimenti, maturato con l’uscita dell’Italia dalla procedura d’infrazione, nel maggio scorso.



I fatti dicono purtroppo che su quei tre punti il passaggio dal governo Letta a Renzi fa ereditare problemi al secondo. Innanzitutto, poiché la scadenza della comunicazione a Bruxelles delle misure aggiuntive è caduta esattamente nei giorni del cambio di testimone tra i due governi senza che Saccomanni desse una risposta ufficiale, alla Commissione Europea i conti continuano a non tornare. La rivalutazione delle quote Bankitalia è stata approvata, ma della spending review di Cottarelli, nero su bianco, ancora di preciso non si sa nulla. Dai soli 3 miliardi attesi per il 2014, Padoan ha detto che si può salire a 5. Ma si resta a parole pronunciate in interviste, mentre sarebbe stato meglio rendere pubbliche le conclusioni e le proposte di Cottarelli, consegnate anch’esse a Saccomanni. Quanto alla forbice di mezzo punto sulla crescita attesa nel 2014 dal governo Letta rispetto a tutti gli osservatori internazionali e dalla Banca d’Italia, essa resta.



In più l’eredità da chiarire del governo precedente presenta altre due possibili sorprese. Se la Commissione europea abbracciasse l’idea che con il provvedimento Bankitalia si configurano aiuti di Stato alle banche, i proventi fiscali relativi diventano aleatori. Idem dicasi per i 4-6 miliardi che il governo Letta si attendeva dalla quotazione di una quota minoritaria ma elevata di Poste Italiane, se dovesse fare passi avanti il dossier europeo sugli aiuti di Stato a Poste attraverso l’assegno miliardario annuale a copertura delle gestioni previdenziali. Sarebbe inevitabile rinviare a tempi migliori la quotazione.



Ecco, sommando al mezzo punto di Pil contestato su deficit strutturale e crescita ottimistica, un altro mezzo di minori introiti da banche e quotazione di Poste, siamo praticamente a un punto di Pil che può ballare nei conti 2014. Non è poca cosa. Tutto ciò spiega perché ieri, nella sua intervista al Sole, Padoan non ha usato verso la Commissione i toni di Saccomanni, e non ha parlato se non di rispetto rigoroso del tetto del 3%. Il ministro ha esperienza più che decennale tra Fmi e Ocse, e sa che è sconsigliabile usare toni di sfida quando ci si muove sul ghiaccio usando pattini a rotelle invece di lame. Solo Renzi deve e può provare a portare in Europa entro due mesi un pacchetto di misure di rilancio su imprese-lavoro capaci davvero di rialzare la crescita potenziale, tali da smentire gli interrogativi fattuali ai quali i predecessori non hanno dato risposta. Ma non può sbagliare il colpo. E se poi il «contratto per le riforme» riuscirà a diventare, nel semestre italiano di presidenza Ue da giugno, un esempio da seguire anche per tutti i paesi eurodeboli, in modo da riconquistare le opinioni pubbliche all’idea che la disciplina europea non è fatta solo di perdita di aziende, reddito e occupazione, allora partendo da queste basi sarà davvero una svolta.
Ultimo aggiornamento: 8 Marzo, 07:33 © RIPRODUZIONE RISERVATA
Potrebbe interessarti anche
caricamento

PIEMME

CONCESSIONARIA DI PUBBLICITÁ

www.piemmemedia.it
Per la pubblicità su questo sito, contattaci