Adriano De Grandis
OGGETTI DI SCHERMO di
Adriano De Grandis

Foxtrot: la guerra, la morte e l'assurdo
Florida: un cinema fintamente ribelle

Venerdì 23 Marzo 2018

Due film: un Leone d’oro e un Gran Premio della Giuria. Entrambi a Venezia. A distanza di 8 anni. Di certo non uno Stakanov della regia, di sicuro un autore che racconta, al di là di un rigore formale sbalorditivo, storie che ci catapultano dentro la guerra, esplorandola più in modo esistenziale che bellico, un armamentario che fissa la paura e la morte in una sorta di teatro dell’assurdo. In questo “Foxtrot”, con l’aggiunta nella distribuzione italiana della solita, inutile coda (“La danza del destino”), è l’ideale continuazione di “Lebanon” (2009), perché l’israeliano Samuel Maoz, non solo amplifica i temi guerreschi attraverso una rappresentazione claustrofobica (stavolta perfino ribaltata in un opposto sorprendente), ma consegna la tragedia agitando come sempre un nemico invisibile.
Se in “Lebanon” i soldati israeliani erano prigionieri nella asfissiante carcassa di un carro armato, ora lo sono altrettanto in una terra deserta nel controllo di un surreale posto di blocco. Tra questi il soldato Jonathan, che all’inizio del film viene comunicato alla sua famiglia come “caduto nell’adempimento del proprio dovere”, ma che si rivela ben presto una deprecabile svista dell’apparato militare, che non sa nemmeno riconoscere i propri soldati.
Diviso in tre blocchi (secondo lo schema del ballo del titolo, che riporta tutto al punto di partenza, con l’ultimo quarto passo), “Foxtrot” diventa una potente, implacabile, geometrica riflessione sull’assurdità della vita, della guerra e della morte, che nella sua gelida precisione scandaglia, senza alibi alcuno, il senso di colpa di tutti, specie di un Paese che sta precipitando (la metafora del barattolo, all’interno del container nel deserto, è evidente), senza essere in grado di cambiare la rotta.
Maoz eccede probabilmente nell’ingabbiare il racconto in un’estetica troppo autocompiaciuta, ma va da sé che le scelte sono sempre coerenti, nonostante gli stessi personaggi rimangano imprigionati alla storia a cui sono destinati: è una critica che molti avevano già evidenziato ai tempi di “Lebanon”, alla quale va aggiunta una forte resistenza ideologica, anche se stavolta Maoz espone soprattutto Israele a un giudizio tutt’altro che lusinghiero. In realtà il regista è spietato nel ribaltare paradossalmente le reazioni ai fatti (come un popolo incapace di comprendere la realtà) e nella seconda frazione mette in scena un teatrino quasi beckettiano in un’atmosfera da deserto dei tartari, con un finale sarcastico, perché la morte arriva sempre quando meno te l’aspetti, anche nel modo. E se la scena d’apertura è fortemente scioccante, l’intermezzo animato spiega il background della famiglia, prima di una formidabile ellissi, con la quale si apre l’ultimo atto.
Stelle: 3½


UN SOGNO CHIAMATO FLORIDA: L'ALTRA FACCIA DELL'AMERICA - A Orlando, ai confini di Disney World, una comunità di marginale sopravvivenza, rinchiusa in edifici dai colori sgargianti, passa la giornata tra furti, prostituzione e vandalismi, dove i bambini non solo non si salvano, ma diventano protagonisti attivi. Lo statunitense Sean Baker analizza con sguardo da entomologo la catastrofe esistenziale ai margini di un mondo favolistico, che diventa territorio di fuga. La prospettiva è quella dei bambini monelli, che compiono azioni sbagliate senza comprenderle e scimmiottano i comportamenti degli adulti triviali e malsani.
In questo territorio sregolato vivono ragazze madri, persone, famiglie con problemi economici: la piccola Moone è il personaggio trainante, un po’ ribelle un po’ insopportabile, in un delirio quotidiano di azioni, che sembrano voler segnalare comunque una forte libertà “politica” dal resto del mondo, a due passi dalla zona più illusoria del pianeta. Lo spirito anarchico vorrebbe emergere, come se fossimo dalle parti ancora di Truffaut o Vigo. Ma ne esce un film forse troppo spinto nella propria tesi, narrativamente statico nonostante l’apporto fondamentale attoriale, tra cui spicca quello di Willem Dafoe, guardiano sensato di un mondo folle e incontrollabile.
Non si avverte insomma una vera e propria ribellione a chi concede alle categorie più deboli di affidarsi solo al sogno costante di una realtà brillante nella finzione o nella favola, un mondo costruito apposta per un turismo usa e getta, per una parvenza di fortuna forse raggiungibile. Non si percepisce la voglia di un riscatto che faccia a pezzi il mondo limitrofo, così incastrato nel proprio perbenismo e nella propria geometrica rilassatezza e precisione. Piuttosto si registra un abbandonarsi a una dimensione precaria, volutamente e cocciutamente degna di orgoglio, una cifra che vorrebbe farsi poetica. Ma è tutto così costruito, anche se Baker sceglie la pellicola, abbandonanfo il digitale degli iPhone del suo precedente film “Tangerine” dove dava però il senso di cogliere meglio una realtà sfrattata ai confini dell’universo americano che esclude chi non si conforma. 
Stelle: 2

PETIT PAYSAN: UN EROE SINGOLARE - 
Un giovane allevatore francese di mucche teme che un'epidemia possa azzerare il suo bestiame. Quindi quando i primi sintomi della malattia iniziano a manifestarsi, sceglie l'opzione più rischiosa: eliminare i bovini ammalati e sperare che il contagio non si diffonda. Un piccolo film politico, che sa parlare dell'oggi precario di una generazione abbandonata e non in grado di competere con la rivalità del mercato globale, finendo col restare sola e senza futuro. Un film pessimista, di malinconica rabbia, purtroppo reso da Hubert Charue piuttosto esteticamente piatto. Terribile (e fuorviante) l'aggiunta nel titolo italiano.
Stelle: 3

INSYRIATED: LA GUERRA IN UNA STANZA -
In una località indefinita della Siria, all'interno di un edificio abbandonato, una famiglia cerca di sopravvivere alle bombe e a chi cerca di penetrare nella casa. Un uomo, in procinto di scappare con la propria moglie, viene ferito al primo tentativo di fuga. La Storia resta all'esterno, il Male è ovunque. Il belga Van Leeuw gira un kammerspiel della paura, in un mondo femminile racchiuso tra quattro mura, mentre quello maschile combatte fuori, portando morte e distruzione. Tema forte, ma il film non sempre ha la capacità di renderlo sullo schermo.
Stelle: 2½




 

  Ultimo aggiornamento: 24-03-2018 17:59 © RIPRODUZIONE RISERVATA