Da pantalonificio a gestione familiare ad azienda con 60 milioni di fatturato «Ma facciamo fatica a trovare sarti»

Lunedì 25 Giugno 2018 di Edoardo Pittalis
Da pantalonificio a gestione familiare ad azienda con 60 milioni di fatturato «Ma facciamo fatica a trovare sarti»
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Nata nel 1962 come pantalonificio a gestione familiare, Peserico a Cornedo Vicentino conta oggi 150 addetti, 60 milioni di fatturato e 1.200 punti vendita dagli Stati Uniti al Giappone. Un'eccellenza del made in Italy nella terra di Marzotto e Lanerossi, dove però sta sparendo la cultura del lavoro tessile. Il ceo Peruffo: «Una volta qui tutti sapevano cucire, ora stentiamo a reperire personale»

L'INTERVISTA
«C'è una cultura del lavoro che sta sparendo in una zona come questa dove tutti sapevano cucire, tagliare, confezionare un abito, realizzare un modello. Mi ricordo che dopo la terza media moltissimi trovavano  immediatamente un lavoro nel settore tessile. Una delle ambizioni dei ragazzi era entrare alla Marzotto, nelle catene dei laboratori. Oggi lavorare in un'azienda di abbigliamento non rientra tra i sogni di un giovane, si fa fatica a trovare personale specializzato. È quasi impossibile sostituire chi va in pensione».

Ma la scuola non prepara al lavoro?
«La scuola fa poco, nel tessile fa zero. Forse è più importante creare addetti ai computer e al marketing che alla produzione! Per lavorare nel nostro reparto modelli bisogna avere nozioni tecniche importanti, il compenso è alto, anche 2.500 euro netti al mese, ma non si trovano figure adatte. Le scuole sfornano aspiranti stilisti, eppure il modellista è come un sarto che trasforma l'idea, troverebbe lavoro appena diplomato. Poi la gente non ama spostarsi, non fa 50 chilometri al giorno per andare a lavorare».

Riccardo Peruffo, nato a Valdagno, 44 anni, è al vertice della Peserico, azienda di abbigliamento di Cornedo Vicentino che fattura 60 milioni di euro. La moglie Paola Gonella lo affianca nella gestione e nelle scelte della moda. Lo ha accompagnato nel passaggio generazionale l'amministratore Andrea Atti, un emiliano arrivato all'alba del Duemila. La Peserico ha quasi sessant'anni di storia, 150 dipendenti, 1.200 punti vendita nel mondo, decine di negozi di proprietà sparsi ovunque; 20 negozi monomarca anche in Giappone, Cina, Corea, Russia, Stati Uniti. È una delle sorprendenti realtà del Nordest, poca visibilità, affari soprattutto sul mercato estero. «Con gli anni ci siamo creati un nostro stile, un abbigliamento quotidiano col quale una donna si sente sempre a posto per qualsiasi occasione. Non si parla più di target di età della donna». 

Come è nata la Peserico?
«È incominciato tutto con mia madre, Maria Peserico, che era maestra di cucito alla Marzotto. Nel 1962 ha aperto un pantalonificio e dopo qualche anno di lavoro per conto terzi, ha deciso di creare una collezione da esportare ed è partita la storia. Oggi mamma Maria ha 84 anni e gestisce personalmente lo spaccio. L'ha affiancata mio padre Giuseppe Peruffo, che ha 89 anni: faceva l'agente di commercio di prodotti agricoli, era ragioniere così si è occupato della contabilità dell'azienda».

In quegli anni questa era la zona del tessile e delle confezioni da uomo e da donna.
«Negli anni '60 la Marzotto di Valdagno aveva 12mila lavoratori che venivano quasi tutti dalla valle dell'Agno. Qui una volta era tutto Marzotto-dipendente, chi aveva l'età per lavorare o un diploma trovava un posto, spesso nella stessa fabbrica c'erano più generazioni di una famiglia».

Il Vicentino, e in particolare la Valle dell'Agno, erano il cuore tessile dell'Italia, la casa madre di un esplodere di piccole e grandi fabbriche, di laboratori familiari assemblati in casa dai quali uscivano abiti da uomo e da donna, gonne, pantaloni, maglie, scarpe. Molti lavoravano per i grandi marchi del Made in Italy della moda. Negli anni in cui ha fatto irruzione il benessere, quella di Vicenza era la provincia più industrializzata: 100mila addetti su una popolazione attiva di 150mila unità. Lo chiamavano miracolo veneto per indicare un processo equilibrato di industrializzazione, capace di assorbire senza traumi le contraddizioni e le tensioni sociali. Era anche il modo di compiacersi per il traguardo raggiunto. C'erano grandi realtà come Marzotto, Benetton, Stefanel. Guido Piovene, che era nato da queste parti e conosceva bene gli italiani, in quegli anni scriveva: «Il sentimento più profondo del veneto è forse l'autocompiacimento». 

E oggi come è la situazione della zona e del settore?
«Se ne stanno andando un mondo e anche una cultura costruita in secoli, il tessile in Italia è nato nel Vicentino, dalla seta alla lana, dai Rossi ai Marzotto. Il Made in Italy è nato anche da questa storia. Ricordo che in tempi recenti, davanti a certa delocalizzazione selvaggia e a chiusure violente, in questa zona tantissima gente cercava lavoro, venivano da noi in fabbrica intere famiglie in lacrime. Indubbiamente il lavoro è cambiato. Prima il responsabile di produzione stava col cronometro in mano, era un'industrializzazione esasperata verso l'efficienza. Anche la nostra era un'azienda con catene produttive, cento operai solo alle macchine per cucire. Oggi si punta sempre di più alla perfezione del capo; la gente compra meno ma bada di più alla qualità. Nel dopoguerra la gente aveva fame, era importante la quantità in ogni settore. È accaduto qualcosa un po' simile con la crisi economica dalla quale stiamo appena uscendo, ma più della quantità adesso prevale la fame di qualità. Oggi o ti scontri con i grandi gruppi coi quali è impossibile competere, o coltivi la nicchia nella quale, però, devi eccellere. Oggi uno non si veste perché è inverno, ha freddo e vuole coprirsi. Oggi vestirsi è anche uno status-symbol. Soprattutto, devi dare servizi al cliente, cosa che 15 anni fa era impensabile; una volta venduto, era finita».

Quando la Peserico è cambiata?
«Il grande salto è arrivato nel Duemila col passaggio generazionale, non più soltanto pantaloni, ma anche giacche, camicie, gonne. Dieci anni fa il mercato italiano assorbiva l'80% della nostra produzione, oggi è il mercato estero che garantisce l'ottanta per cento. Quando vai in giro scopri che c'è già tutto e di più, per questo occorrono innovazione, inventiva e cura particolare del cliente. Ora puntiamo allo sviluppo in Cina dove potenzialmente il mercato è enorme: questo significa operare in un sistema con regole diverse, con la barriera della lingua da superare. All'estero cercano serietà e il Made in Italy che è il vero patrimonio da tutelare, la vera arma competitiva, e non parlo soltanto della moda: penso alla meccanica, al cibo, al vino».

Cosa ha preso dai genitori?
«Da bambino i miei pomeriggi erano in fabbrica a vedere mia mamma che lavorava. Sono cresciuto più qui dentro che nei campi a giocare come gli altri e vivere nell'azienda ti insegna tutto. Capivo che c'era anche un rapporto affettivo che fortunatamente siamo riusciti a portare avanti, qui si festeggiano tutti i compleanni. È stata la mia scuola di formazione, il mio laboratorio artigiano. Poi sono andato a Padova a perfezionare la parte economica e mi sono laureato in scienze economiche. Da mia madre ho preso il concetto di qualità, da mio padre la lezione di non vivere mai sopra le righe».

Quali sono i problemi del Veneto visti dall'imprenditore?
«Il più grosso sono le strade, le infrastrutture, dal treno alle autostrade. Per andare a Milano occorre un tempo sproporzionato rispetto alla distanza reale. A livello strade sai quando parti, ma non quando arrivi. L'aeroporto di Venezia è fondamentale, ma tanti voli ancora non esistono. È tutto sottostimato rispetto alla realtà internazionale». 

Solo famiglia e azienda?
«Ho una grande passione per le auto, mi piace allestire personalmente l'arredo delle macchine, cerco di farle più alla moda. Resto affezionato alla prima Porsche, ma oggi sono contento della mia Lamborghini Aventador S, appaga il mio gusto da collezionista. Mi preoccupa, però, che i miei tre figli incominciano a contestarmi in materia di auto».
Ultimo aggiornamento: 15:33 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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