Red Hot Chili Peppers, in 30 mila al Rock in Roma: il tempo passa, l'incantesimo resta

Venerdì 21 Luglio 2017 di Andrea Andrei
(Foto Ansa)

Ebbene sì, anche i Red Hot Chili Peppers invecchiano. A modo loro, certo, per cui la vecchiaia si misura attraverso il numero delle acrobazie sul palco e quello dei secondi in cui ogni singolo membro della band resta fermo senza saltare o correre. Se ne saranno accorti i 30 mila fan che li hanno visti suonare ieri sera al Postepay Sound Rock in Roma, arrivato ieri al suo concerto di punta. Se ne accorgeranno forse coloro che li sentiranno stasera all’Ippodromo di San Siro, a Milano. Ma soprattutto se ne saranno accorti quelli che erano presenti l’ultima volta che i Red Hot si erano esibiti nella Capitale, nel febbraio del 2003, nel tour promozionale dell’album “By the way”.

Da allora sono cambiate tante cose. Kiedis e compagni non avevano ancora pubblicato altri tre album, “Stadium Arcadium”, “I’m with you” e il più recente “The Getaway” (uscito a giugno 2016 e che dà il nome al tour in corso). John Frusciante era ancora parte della band (è stato sostituito a partire dal gennaio 2010 dall’amico Josh Klinghoffer, che già dal 2007 si esibiva come chitarra supplementare negli show dal vivo dei RHCP). Non solo. Chris Cornell aveva da pochi mesi dato alle stampe il bellissimo album d’esordio dei suoi Audioslave. Chester Bennington era in studio con i Linkin Park per cercare di bissare il successo planetario di “Hybrid Theory”, che avrebbe venduto 27 milioni di copie in tutto il mondo.

Di cose ne sono cambiate tante, ma i Red Hot ci sono ancora, vogliono esserci ancora nonostante tutto. E ieri sera, all’Ippodromo delle Capannelle, l’hanno dimostrato. Proprio nel giorno in cui, come in un assurdo e inaccettabile copione, Bennington ha deciso di togliersi la vita e di seguire il suo amico Chris Cornell (morto suicida il 18 maggio), che proprio ieri avrebbe festeggiato il suo 53esimo compleanno. La band californiana ha reagito come sa fare e come ha sempre fatto: cercando di scacciare con un sound granitico l’ombra sinistra che ultimamente sembra tornata ad avvolgere il mondo del rock, come in un rituale per annientare una maledizione perenne.

Kiedis e gli altri lo hanno messo in chiaro fin dall’inizio con “Can’t stop”, pezzo liberatorio di pura adrenalina (contenuto proprio in “By the Way”) che ha acceso la miccia dello show, mandando in delirio i 30 mila di Capannelle. Le successive “Dani California”, “The Zephyr song” e “Dark Necessities” hanno alzato ancor di più l‘asticella dell’entusiasmo, con un Kiedis già a petto nudo, un Chad Smith martellante e un Flea ipnotico, che ha trasformato il palco in un tempio del rock con le movenze e l’abbigliamento coloratissimo da stregone funky che ormai lo caratterizza. Solo Klinghoffer, vestito in total black, sembra rimanersene un po’ in disparte, nonostante sia quello che per ragioni anagrafiche (con i suoi 37 anni è di circa un ventennio più giovane dei colleghi) riesca a saltare più in alto degli altri.

Ma un incantesimo, si sa, è destinato a finire. L’asticella era stata fissata forse troppo in alto perché, brano dopo brano, il calo fisico della band si fa sentire, nonostante alcuni picchi come la cover di “I wanna be your dog” degli Stooges. Prima nell’affanno della voce di Kiedis, poi in alcune “sviste” ritmiche che in un gruppo funk-rock è difficile non notare. Il pensiero va a quel 2003, a Flea che entra in scena camminando sulle mani, a Kiedis che si arrampica sulla batteria di Smith, che nel frattempo suona in piedi. Il pensiero va a Frusciante, a quel suo inconfondibile assolo di “Californication” che fa venire la pelle d’oca e gli occhi lucidi. Sul palco del Rock in Roma partono proprio le note del brano che dà il nome a quell’album del 1999 che oggi è una pietra miliare del rock. La platea si colora dei puntini luminosi degli schermi degli smartphone, la gente canta all’unisono. Klinghoffer è bravissimo (a un certo punto del concerto dedica anche al pubblico italiano una cover acustica di "Io sono quel che sono" di Mina), ma la mancanza di Frusciante si sente, ora più che mai.

Poco prima del concerto romano Chad Smith ha detto esplicitamente che la band sta considerando la possibilità di smettere di esibirsi dal vivo. «Non so ancora quanto potremo continuare con questa vita», ha detto. E’ la storia di qualsiasi gruppo di amici: ci si trova e ci si lascia, proprio mentre insieme si ha l’impressione di poter spaccare il mondo. Ci si diverte, si invecchia, si soffre, si litiga, ci si riabbraccia. Ma solo insieme si superano i momenti più difficili, solo se qualcosa resta sempre uguale, nonostante il tempo che passa. I Red Hot lo sanno. Ne hanno superate di tutti i colori, dalla tossicodipendenza che ha più volte minacciato le loro esistenze personali e quella della band (il loro primo chitarrista, Hillel Slovak, morì di overdose), alle follie del vortice autodistruttivo del rock dei primi anni ’90. Ed eccoli lì tutt’a un tratto, a suonare e a improvvisare in cerchio, l’uno stretto all’altro. Ed ecco che in un attimo è come se avessero di nuovo 20 anni e suonassero in un garage, non davanti a 30 mila persone con la bocca aperta. Il basso di Flea incanta, come sempre.

Decolla la mitica “Aeroplane”, brano di punta di "One hot minute”, e con lei l’intero concerto. E poi succede quello che tutti, fin dall’inizio, stavano aspettando: “Under the bridge”. Certe emozioni, chi ama la musica lo sa, non svaniscono. Possono diventare più o meno forti nel tempo, ma non scompaiono mai del tutto. Resistono persino alla morte, figuriamoci all’età. I cinque schermi sul palco proiettano immagini dell’immensa platea con le braccia alzate, poi di nuovo la band, ora davvero indistinguibile da quella di un tempo. Si passa attraverso la ballatissima “By the way”, e la potente “Goodbye Angels” apre la strada al gran finale con “Give it away”.

Si torna a casa sudati e contenti. L’incantesimo, almeno per una sera, ha funzionato.

andrea.andrei@ilmessaggero.it
Twitter: @andreaandrei_

Ultimo aggiornamento: 20 Febbraio, 19:40 © RIPRODUZIONE RISERVATA