Una scelta sbagliata/ Spelacchio morto di "malasanità": la lezione di Roma

Martedì 19 Dicembre 2017 di Mario Ajello
Una scelta sbagliata/ Spelacchio morto di "malasanità": la lezione di Roma
Riposa in pace, Spelacchio, vittima della malasanità con il timbro capitolino. Il Comune dà il triste annuncio - «Spelacchio è defunto» - e la sua scomparsa è il naturale epilogo della catena di errori che l’albero ha dovuto patire. 

Ecco insomma la cronaca di una morte annunciata. Una morte per trauma. Come si poteva concepire che un abete così, malaticcio e rachitico, sofferente e non in grado di sopportare il peso di rappresentare una grande Capitale qual è Roma, riuscisse a sopravvivere allo stress di essere finito in mani inadatte a prendersi cura di lui e dell’orgoglio di una città meritevole di un albero alla sua altezza? 

Le cause della morte di Spelacchio stanno nella mancanza di professionalità di chi ha mal gestito un paziente, fingendo che non fosse un caso clinico ma soltanto un tipo sanamente magro e perfetto per simboleggiare una sobrietà di cui - in questo caso - nessuno sentiva il bisogno. E ora è andato nell’aldilà Spelacchio. Morto perché privo di radici, come tutti gli alberi di Natale, ma morto troppo precocemente perché ha preso freddo nel viaggio dal Trentino a qui e poi invece di finire in corsia, sotto le coperte di qualche sanatorio per vegetali, è stato issato (si fa per dire) nel luogo più rumoroso e inquinato di Roma. Dove possono stare tutti tranne un malato terminale come lui.

Il colmo dei colmi non è soltanto il cordoglio capitolino, che proviene da chi ha esposto al pubblico ludibrio un poveretto, senza saperlo custodire e senza immaginare un altro tipo di immagine per Roma. A questo si aggiunge anche il fatto che un albero che dovrebbe essere abituato al gelo è venuto a morire quaggiù, in un clima più dolce. Nel quale abitualmente vengono a riprendere fiato i malati più cagionevoli. Senza l’imperizia di chi ha gestito il tutto, Spelacchio forse sarebbe potuto durare un po’ di più, almeno due mesi di vita romana, ma niente: triste, solitaria y final era la storia che è stata preparata per lui e la conclusione ha tenuto fede alle premesse. 

Ora il rammarico è generale. «Mettere la salma di Spelacchio al Pantheon», propone qualcuno sui social. Ma altri accusano: «Tanti soldi, 50mila euro, spesi inutilmente per farlo arrivare qui, e poi lo condannate a morte?». Oppure: «Che cosa avete combinato?». O ancora: «Aspetto le scuse di chi lo ha messo lì, non emblema di forza ma di precarietà». E’ questo che i romani non si sono meritati: il downgrading del proprio rango, a causa di una scelta improvvida. E rivelatasi micidiale per la salute di Spelacchio: questo testimonial incolpevole del pressappochismo che la Capitale e i suoi cittadini lamentano. Ed è durato meno del marziano a Roma (quello di Ennio Flaiano) il povero fuscello trentino. Morto di crepacuore, vedendosi sedotto e abbandonato, e non certo sopraffatto dall’invidia - lui così umile, modesto e consapevole della fragilità delle proprie condizioni e dell’impossibilità di diventare un competitor - nei confronti di Rigoglio. Il collega di Piazza San Pietro, di gran lunga più aitante di lui, che sta lì forte e saldo a simboleggiare un Natale vero. 

Certo, c’è una polizza sulla vita di Spelacchio e il Comune si può consolare con un rimborso da parte del Trentino. Ma resta la lezione romana, all’insegna dell’irresponsabilità. Ora consoliamoci: morto uno Spelacchio se ne fa un altro. Anzi ce ne sono altri due, tutt’altro che spelacchiati: magnifici. Il bell’albero montato a Piazza Mignanelli, di fronte all’ambasciata spagnola, e l’ottimo Rigoglio che dal Vaticano ha assistito con pietà alla sorte toccata al collega malcapitato. E non c’è requiem che possa coprire gli sbagli di chi ha inflitto a Roma un’altra piccola grande pena. 
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