Pd, patto Franceschini-Orlando: il candidato premier non sarà Renzi

Mercoledì 8 Febbraio 2017 di Nino Bertoloni Meli
Pd, patto Franceschini-Orlando: il candidato premier non sarà Renzi

Renzi offre il premio di coalizione in cambio del via libera al voto a giugno? Bene, rispondono dalle parti di Franceschini e di Orlando, «ma se si vota a giugno il candidato premier non potrà essere Matteo». In pratica, incassano la legge elettorale con il premio che permette di rifare le coalizioni e magari di scongiurare scissioni a sinistra, ma espellono il leader dalla corsa per palazzo Chigi.

L'ACCORDO
E' un vero e proprio patto politico, quello che sembrano avere stretto i due ministri capi corrente della maggioranza interna al Pd, Dario Franceschini e Andrea Orlando, un patto che qualcuno, esperto di cose partitiche, già vede proiettato sul futuro prossimo venturo di un Pd, una sorta di patto di San Ginesio (quello che fecero a loro tempo De Mita e Forlani per far fuori Fanfani) che dovrebbe vedere il capo dei giovani turchi (Orlando) possibile futuro segretario del Pd, e il capo di Areadem (Franceschini) prescelto per guidare il governo, se e quando sarà.

I due ministri si sono visti a Montecitorio in serata, a loro si è aggiunto Maurizio Martina, altro ministro strategico della maggioranza che attualmente regge il Pd, hanno discusso, hanno confabulato, poi ognuno ha riunito le proprie truppe separatamente nelle stanze del gruppo Pd della Camera (la riunione dei franceschiniani era anche con i senatori e i capigruppo). Tutto ruota attorno a un'idea base: nel Pd crescono quanti non considerano più Renzi il candidato di nuovo spendibile per palazzo Chigi e per vincere le elezioni. Sempre dall'interno della maggioranza, pare anche opinione estesa ai veltroniani, c'è chi o gli ha detto o ha in animo di dirgli che, quand'anche Matteo vincesse il congresso in autunno, «poi però non significa che sarà lui il candidato per palazzo Chigi».

Il motivo? Semplice, e lo spiegano in più di un deputato: «Quel connubio aveva e avrebbe senso in presenza di una legge elettorale maggioritaria dove il cittadino vota il partito, o la coalizione, ma anche il governo e chi deve guidarlo; ma con un impianto proporzionale i governi e le maggioranze si fanno poi in Parlamento, quindi il candidato premier non ha più senso, quelli che poi devono allearsi con te possono benissimo dire ok, facciamo l'accordo, ma il governo lo guida questo piuttosto che quell'altro.

IL SEGRETARIO
E lui, la vittima di tante grandi manovre? Non ha ancora deciso quale strada prendere, se andare allo scontro anche con la sua maggioranza o acconciarsi a più miti consigli. Uno saggio ed esperto come Pierluigi Castagnetti, che si fa vedere a Montecitorio di norma nei momenti difficili, ieri era in vena di ricordi democristiani e raccontava di come «nel 1959 Fanfani, che aveva il triplo incarico di segretario della Dc, presidente del Consiglio e ministro degli Esteri, fu defenestrato da Moro, salvo poi un anno dopo tornare a palazzo Chigi alla guida del governo». Lo andrà a riocordare a Renzi?, chiedono i giornalisti. «Ma no, non so», allargava le braccia Castagnetti con un sorriso.

LE TENSIONI
Far saltare la riunione dei gruppi parlamentari prevista per oggi non ha portato bene a Renzi. I convocati poi sconvocati non l'hanno presa bene, è serpeggiata una certa irritazione, e il risultato è stato la serie di riunioni di corrente in mancanza d'altro. Renzi sa bene che se non si vota a giugno, come ormai appare più che probabile, non è che poi il cammino sarà lastricato di rose. «Io non intendo fare la fine di Bersani dopo il governo Monti», va ripetendo l'ex rottamatore, nel senso che, è analisi corrente nel Pd, dopo l'esperienza Monti e la sua agenda, il Pd si trovò a pagare alle elezioni il costo di alcuni provvedimenti varati da quel governo. Tradotto: se non si vota a giugno, toccherà fare la legge di Bilancio in autunno, che non si annuncia certo di quelle che salvaguardano le tasche degli elettori. E dopo si voterà.

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Ultimo aggiornamento: 19:45 © RIPRODUZIONE RISERVATA