Le identità Pd/ Ora tocca a Renzi fare la sintesi tra le due culture

Mercoledì 9 Agosto 2017 di Mario Ajello
Il Pd fu la fusione (a freddo?) del riformismo cattolico e di quello di provenienza comunista. Molti personaggi della sinistra storica, a cominciare da Emanuele Macaluso, previdero: «Prima o poi, su questioni dirimenti, il matrimonio tre queste due culture esploderà». Il momento è adesso? La dicotomia tra Delrio e Minniti non appartiene alle ambizioni personali o di potere. Deriva invece da qualcosa di più profondo. E mette il partito di Renzi, su un tema fondante com’è quello dell’immigrazione, di fronte a se stesso e al problema della propria identità da definire. 

Finora hanno convissuto, fino ad arrivare allo scontro attuale, due culture del Pd. Quella del cattolicesimo di tipo bergogliano, del solidarismo, dell’accoglienza e dell’umanitarismo classico (ma guai a schiacciare Delrio sulla macchietta del cattocomunista o del buonista senza se e senza ma, perché questo proprio non è); e quella del realismo della fermezza che è tipico della tradizione da cui viene Minniti. E che lui sembra incarnare completamente, quando critica l’atteggiamento non costruttivo di alcune Ong, che vogliono radicalizzare lo scontro ed esasperare una situazione cui il governo cerca di fare fronte tra infinite difficoltà.

Proprio il governo, ieri, anche per effetto dell’asse Mattarella-Gentiloni, ha risolto la questione specifica e il lealismo di Delrio all’esecutivo di cui fa parte è fuori discussione. Ma nel Pd la questione di fondo resta apertissima. Delrio e Minniti sono entrambi renziani ma tra di loro diversamente renziani. Delrio è uno che nel suo pantheon ha Dossetti (che non era affatto un’anima bella) e che non merita, perché diversissimo da loro, il tifo mainstream di personaggi alla Roberto Saviano e gli applausi auto-compiaciuti di tutto quel narcisismo umanitario, sempre pronto a mettersi in mostra e a specchiarsi nella propria ideologia falsamente benefica. Minniti è uno che s’ispira alla tradizione togliattiana, o meglio a quella di Giorgio Amendola e di una certa idea di rigore democratico che rigetta ogni tentazione demagogica sinistrese.

E Renzi con chi sta? Il segretario, nelle sue uscite pubbliche degli ultimi tempi, sta ampiamente sdoganando i concetti di identità («Se non hai un’identità non integri, e sei invaso»), di radici, di protezione, di accoglienza non indiscriminata. Valori che vengono da altre tradizioni. Ma questo Pd è solo una parte del Pd. L’altra, quella di Delrio ma non solo sua, ha una rilevanza e una possibile estensione a sinistra e presso il popolo di sinistra a cui Renzi non può minimamente rinunciare. Toccherà al leader fare la sintesi. E dare coerenza e chiarezza al suo partito su questi terreni cruciali, nei quali si vinceranno o si perderanno le prossime elezioni. 

A prescindere dall’attuale caso delle Ong, il diverso approccio al tema dell’accoglienza e della gestione dei flussi migratori non è soltanto un fatto di culture, ma può diventare nelle mani di chi la pensa come Delrio una piattaforma politica, dentro il Pd e nelle sue propaggini, che va a coprire un’area che oggi è senza nocchiero e va da Orlando a Franceschini, fino a Pisapia. Potrebbe trasformarsi insomma, piaccia o non piaccia, in un’operazione capace di attirare verso i dem elettori progressisti e cattolici, magari al prezzo di scoraggiare adesioni di provenienza centrodestra. Sull’altro versante, Minniti con il suo piglio sul tema della sicurezza (quello che gli procurò ovazioni all’ultimo Lingotto), con la linea dura e spigolosa come il suo volto, con quel concretismo anche logico che ha mostrato in questa vicenda delle navi umanitarie («Se si decide di risolvere un problema in un modo, lo si deve fare in quel modo, senza trasgressioni») parla invece a un elettorato trasversale, tendenzialmente maggioritario, sganciato da certo solidarismo classico e da quel pacifismo che esclude a priori l’uso della forza. Si tratta di una larga porzione di italiani, di ogni colore politico, che possono riconoscersi in uno dei cardini dell’azione del ministro, quello secondo cui «la forza va dispiegata ma anche spiegata».
Renzi, dunque, deve scegliere come sciogliere questo nodo dei due Pd, e delle loro proiezioni esterne, per non restarne intrappolato.
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