Da Roma ladrona ai ladroni lombardi

Martedì 11 Luglio 2017 di Mario Ajello
Da Roma Ladrona ai ladroni lombardi. Quelli che dovevano raddrizzare la Capitale e invece l’hanno depredata. Senza riuscire neppure a somigliare lontanamente ai lanzichenecchi del 1527, i quali nel loro saccheggio almeno avevano alla spalle un grande imperatore, Carlo V.

E non piccoli leader da caricatura di Alberto da Giussano rivelatisi lesti di mano. La condanna per appropriazione indebita, cioè per ruberie, a Umberto Bossi e al suo Trota, il figlio Renzo con finta laurea acquistata in Albania con i soldi del contribuente, rappresenta la nemesi. E’ il rovesciamento di «una storia sbagliata», come cantava Fabrizio De André.

I lombardi, i lumbard, i padanisti, i separatisti della secessione impossibile o della devolution (ma ne conoscevano il significato?) avevano scatenato una campagna forsennata contro la Capitale, descritta come sentina di ogni male, assurta nella propaganda ad uso del Pratone di Pontida a lupanare pronto a corrompere la presunta dirittura etica dei malcapitati valligiani finiti guaggiù. Finiti anche nel senso che in questa città, proprio a causa di ruberie, malversazioni e inconsistenza, hanno mandato in fumo la loro improbabile marcia di conquista politica. E ora viene condannato a due anni e tre mesi Bossi, ovvero il simbolo di quella stagione dei cappi giustizialisti sventolati in Parlamento, dello spadone longobardo che si abbatte sulle mollezze quirite da basso impero e di altra paccottiglia da teatrino di Palazzo che ha fatto tanti danni. Mentre i suoi agitatori intascavano, non per il partito ma per la family, non per le attività politiche ma per le spese personali, i denari erogati dalle casse di Roma Ladrona.

La crociata della purezza morale s’è infranta sui diamanti comprati dal tesoriere Belsito, a sua volta condannato, con i soldi pubblici. E viene da sorridere, molto amaramente, ripensando alle parole pseudo-storiche e fanta-politiche che pronunciò l’ideologo del Carroccio, Gianfranco Miglio, all’inizio dell’avventura andata male: «Già ci volle la forza dei popoli arrivati dalle terre profonde e umide del Nord, per dare sviluppo a un’Italia da basso impero. E ora non resta che sperare nei nuovi barbari come portatori di rettitudine e di pulizia».

La condanna del barbaro lombardo, dei suoi familiari e dei suoi famigli - il familismo amorale non apparteneva si sudisti e agli odiati centralisti? - apre oltretutto uno squarcio sui quel Nord, le cui vicende di corruzione godono spesso il privilegio di essere nascoste in un cono d’ombra. Si diceva che Roma fosse il «porto delle nebbie» e invece, ma qui la metereologia non c’entra, le nebbie gravano su Milano. Un’atmosfera ovattata avvolge l’inchiesta riguardante l’Expo e c’è sempre una sorta di riluttanza ad accendere i riflettori su altre vicende lombarde o su quelle del Mose a Venezia. Come se in quelle latitudini si godesse di una speciale di immunità e di protezione da sguardi indiscreti.

Questo verdetto chiude di fatto un’epoca. Dimostra quanto sia stata fallace - in un Paese che pure non è e non fu immune da difetti, sprechi e abusi risolvibili senza agitare il falso mito della disunione - la campagna leghista che, dalla fine degli anni ‘80 e poi sempre di più, ha travolto e spaccato il Paese. Tracciando, con una sorta di manicheismo geopolitico fuorviante, la linea del bene e quella del male. Ma l’imbroglio non poteva durare.

© RIPRODUZIONE RISERVATA
© RIPRODUZIONE RISERVATA