Fine dell’idillio/Prova di forza per negoziare i futuri accordi

Sabato 8 Aprile 2017 di Raffaele Marchetti
Trump ha dato il via libera al bombardamento della base di Al Shayrat da cui sono partiti gli aerei siriani che avrebbero sganciato le bombe chimiche. La Turchia, Israele e l’Arabia Saudita plaudono. La Russia, l’Iran e la Siria protestano. La Cina tace. 
Un inquietante enigma, in tipico stile mediorientale, rimane sul perché mai Bashar al-Assad, in un momento di grande forza politica interna e internazionale, si sia esposto al rischio di subire danni politici irreparabili con l’uso criminale del Sarin.

La risposta americana all’attacco chimico, che coincide temporalmente e forse non casualmente con l’attentato a Stoccolma, è un fatto che da un lato solleva importanti interrogativi etico-politici e dall’altro può generare importanti cambiamenti nello scacchiere mediorientale e finanche mondiale. Andiamo con ordine.

Come reagire ad attacco con armi chimiche? La strada maestra sarebbe quella di un’indagine internazionale che ne accerti i responsabili, una risoluzione di condanna del Consiglio di Sicurezza Onu e magari un’autorizzazione dello stesso ad un intervento armato. E tuttavia, questa strada non è stata percorribile per il conflitto di interessi tra gli Usa e la Russia, entrambi membri con potere di veto del Consiglio. A questo punto si pone un dilemma etico e politico allo stesso tempo: reagire con la forza, a prescindere dalla legittimazione Onu, o rimanere nel dettame giuridico della comunità internazionale che vieta azioni militari su un territorio sovrano e astenersi dal reagire all’uso criminale delle armi chimiche? Qualsiasi decisione genererà benefici, ma anche costi significativi. Gli Usa hanno optato per la prima, per vari motivi.

È chiaro che il bombardamento creerà consenso a favore del presidente Trump, consenso interno ed internazionale. In un momento di difficoltà interna, il ricorso all’azione militare internazionale provoca sempre l’effetto di aggregazione intorno alla bandiera che rinsalda la leadership. Ma anche a livello internazionale, una guerra serve anche a rassicurare gli alleati e ad aumentare il proprio prestigio nei confronti dei rivali. Inoltre, non possiamo dimenticare che ogni presidente americano dopo Jimmy Carter ha invariabilmente intrapreso una o più operazioni militari o vere e proprie guerre. Guardando alla serie storica era facile prevedere che anche Trump avrebbe ceduto all’uso della forza. Sorprende solo che ciò sia avvenuto nel giro di tre soli mesi dall’insediamento. I risultati sono però evidenti: è forse la prima volta che il consenso nei confronti di Trump è unanime all’interno del tradizionale blocco occidentale allargato. 

La risposta americana non sembra il preludio di un’operazione su larga scala. Non c’è disponibilità negli Usa per questo tipo di coinvolgimento. I 59 missili tomahawk bastano però per reintegrare gli Usa nella partita mediorientale dalla quale si erano assentati durante la fase di transizione di potere da Obama a Trump. Bastano per mettere in crisi l’assetto a guida russa sigillato dall’accordo di Astana di qualche mese fa tra la Russia, l’Iran e la Turchia. Dopo questo bombardamento-avvertimento bisognerà fare i conti anche con gli americani per il futuro della Siria. 
Cosi come bisognerà stare a sentire Washington per quanto riguarda la Corea del Nord, un caso per alcuni versi simile. Non è una coincidenza infatti che i missili siano stati autorizzati durante la cena tra Trump e Xi Jinping. Il messaggio era chiaro: anche in Asia nord-orientale la voce statunitense sarà presente.

Messaggi verso la Russia e la Cina che sono tattici, non strategici. Malgrado le dure reazioni russe, l’intento di Trump sembra essere quello di rilanciare la posta americana sul tavolo della trattativa con Mosca, non quello di far saltare il tavolo stesso. Le aperture americane verso la Russia non vengono smentite, ma semmai chiarite in vista di una negoziazione che porti maggiori benefici all’America. In modo simile, la Casa Bianca interpreta il rapporto con la Cina come una negoziazione dura, ma pur sempre una negoziazione in cui le controparti si riconoscono uguale dignità. Tuttavia, il rischio non è insito nelle intenzioni americane, quanto negli effetti che uno stile negoziale cosi sfrontato possa generare nei partner.

Chi ci perde in questo nuovo modello di coesistenza negoziata? In primis l’Onu: sembra di essere di fronte al preludio di un’ennesima stagione di veti reciproci che paralizzano il palazzo di vetro, condannandolo alla marginalizzazione. Ma tra i possibili perdenti di questo nuovo assetto sembrano esserci anche altri attori. Nello scacchiere mediorientale i curdi sembrano rappresentare un compenso sufficiente per riportare la Turchia in occidente. Ci perde anche la Siria che vede riaprirsi la partita sul suo futuro (qualche che esso sia) e quindi ci perdono i siriani che rimarranno ancora a lungo intrappolati nella carneficina della guerra e dell’instabilità. E ci perde anche l’Unione Europea nei confronti della quale si confermano i sospetti della prima ora, ossia la perdita di rilevanza internazionale, anche in quegli scacchieri dove dovremmo essere attori primari. Gli USA hanno avvisato dell’imminente bombardamento Mosca…non Bruxelles.

rmarchetti@luiss.it
 
© RIPRODUZIONE RISERVATA