Una morte rituale antica per sopravvivere al disonore

Giovedì 30 Novembre 2017 di Franco Cardini
Dicono che il suicidio sia, o possa essere, una punizione del suicida per chi resta. Quello del generale Slobodan Praljak, 72 anni oggi, condannato dalla Corte dell’Aja, è un gesto premeditato. 

Il generale Praljak, che aveva 48 anni quando nel 1993 era a Mostar e faceva cose che la Corte Internazionale dell’Aja ieri ha giudicato criminose, ha a sua volta condannato i suoi giudici togliendosi la vita con del veleno che aveva portato indosso: si tratta pertanto di un gesto premeditato.

Qualcuno ha paragonato la scelta di Praljak a quella mediante la quale nel 1946 Hermann Göring si sottrasse nel 1946 alla pena infamante, la morte per impiccagione, che i giudici di Norimberga gli avevano comminato. Nessun paragone calza mai a pennello: questo, poi, zoppica vistosamente. Il Reichsmarschall nascondeva da tempo il cianuro che gli sarebbe servito per uscire dalla scena del mondo evitando l’esecuzione: altri capi nazisti avevano preso la medesima precauzione, che per esempio Erich Himmler mise in atto non appena catturato. Ma il capo della Luftwaffe, a differenza di quello delle SS, non aveva propriamente l’intenzione di non sopravvivere al crollo del Terzo Reich e aveva inoltre evidentemente profonda coscienza dei suoi crimini.

Göring, invece, sia quando fu preso prigioniero dagli americani sia molto a lungo durante il processo, si mantenne piuttosto sicuro del fatto che, alla fine, sarebbe uscito assolto o condannato comunque a una pena non estrema. Conservava certo il suo cianuro per ogni evenienza, però era fiducioso. Si suicidò solo quando ormai la condanna era stata formulata, per evitare la sofferenza e la vergogna del capestro e in un certo senso per irridere in extremis ai suoi carcerieri. 

Praljak dubitava senza dubbio dell’assoluzione ed era pronto a morire in caso fosse stato condannato: ciò indipendentemente, a quel che pare, dall’eventualità della pena. Aveva accettato di sottoporsi al verdetto dei giudici dell’Aja, ma sembrava sicuro, in fondo, non di scampare alla condanna grazie all’abilità sua e dei suoi avvocati - era quanto invece aveva sperato il corpulento collaboratore di Hitler - bensì di venir assolto in quanto in coscienza non si sentiva colpevole. 

Per quanto premeditato, il suo gesto è stata la conseguenza di una delusione ch’egli aveva pur messa ipoteticamente in conto, ma alla quale non era intimamente preparato. Da qui il contrasto tra l’arcaicità di un darsi la morte per non sopravvivere al disonore e per accusare l’ingiustizia dei suoi giudici - un gesto che richiama Bruto e Catone l’Uticense: una scelta che i filosofi stoici avrebbero apprezzato - e il carattere mediatico e “postmoderno” di una “morte in diretta” che in qualche modo ha fatto di lui, se non proprio un eroe, perlomeno un protagonista. 

Un tempo, quando la vita era un valore pur altissimo ma che ne conosceva altri più alti ancora, ci si sarebbe chiesti quanto la coscienza intima del disonore aveva avuto importanza nello spingerlo all’estremo gesto; oggi, in tempi nei quali la vita umana (e soprattutto la propria) ha un valore primario se non assoluto, ci si sorprende interdetti dinanzi al gesto di un imputato che aveva ricevuto una condanna severa sì, ma in fondo non durissima.

Condannato a 20 anni nel 2013, ne aveva già scontati 4: gliene restavano 16 e quindi sarebbe uscito dal carcere nel 2033, a 88 anni. Un’età avanzata, ma non poi così improbabile da raggiungere come in passato. Oltretutto, in caso (probabilissimo) di buona condotta, avrebbe rivisto magari il cielo aperto anche prima. 

Questa, però, è computisteria giudiziaria. Dinanzi a una scena così tragica, a un vecchio soldato che punisce se stesso in modo più duro di quanto i suoi giudici non avrebbero voluto e che nel far ciò intende senza dubbio a sua volta accusarli e condannarli, si può solo riflettere - e dolorosamente, non senza pietas - su quanto complesso sia il cuore dell’uomo. Praljak si è dato la morte volontariamente, con ciò testimoniando la propria buonafede, la coscienza di sentirsi innocente: e la volontà con ciò di obbligare i suoi giudici a portare sulla loro la colpa della sua vita interrotta.

Ma sarà proprio così? Gli addebiti che il tribunale gli aveva mosso riguardavano anzitutto e soprattutto il fatto che, nelle alte funzioni ch’egli rivestiva all’epoca, non aveva fatto abbastanza per punire crimini di guerra commessi dai suoi e ch’egli ben conosceva. È questa coscienza profonda la vera causa del suo suicidio? È possibile che, pur proclamandosi innocente dinanzi agli uomini, abbia punito se stesso perché conscio di essere in realtà colpevole in modo diverso, magari più profondo, di quanto i giudici non ritenessero?

Non lo sapremo mai. Certo, dinanzi a quella morte accompagnata da quella drammatica dichiarazione di non colpevolezza - forse rivendicazione estrema d’innocenza, forse paradossale autoaccusa - un moto di pietà e di rispetto sorge spontaneo. Forse il generale Praljak era un buon soldato, come i croati hanno fama di essere: crudeli, ma coraggiosi e disciplinati. 

Meritava la corte internazionale? Diciamo ancora una volta: forse meno di altri. C’è chi, peggiore di lui, l’ha fatta franca. Praljak non apparteneva al nòvero dei vincitori, era stato instradato verso un’assise che giudica nel nome del genere umano. Altre volte, è andata diversamente. Pensiamo agli aviatori buontemponi che nel 1998, con le loro acrobazie, causarono la morte dei passeggeri di una teleferica: alludiamo ai famosi fatti del Cermis. 

Un tribunale italiano li avrebbe, o almeno così vogliamo sperare, condannati come meritavano. Ma c’era di mezzo la convenzione di Londra del 1951: l’accordo vergognoso, accettato dall’Italia, ai sensi del quale i militari membri della Nato se accusati di un crimine vanno sottoposti al giudizio di una corte militare statunitense. Quest’accettazione dell’extraterritorialità per delitti commessi sul suolo italiano resta una macchia indelebile su tutti i governi che, negli ultimi 66 anni, si sono succeduti nel nostro Paese. Va pur ricordato che, nel 1978, da una situazione analoga si sviluppò in Iran un moto popolare talmente unitario e profondo da rovesciare il governo dello Scià Mohammed Reza Palhavi. 

Ma, evidentemente, la dignità di un popolo è intesa in Italia in modo molto diverso che non in Iran. E gli aviatori americani giocherelloni non hanno pagato il fio della loro bravata. Pensando a tutto ciò, non si può non provare rispetto dinanzi al gesto disperato di un generale croato meno difeso dai tortuosi cammini della giustizia internazionale.
Ultimo aggiornamento: 00:12 © RIPRODUZIONE RISERVATA