Caso Libia, dai migranti al petrolio: crescono i rischi per l'Italia

Lunedì 3 Settembre 2018 di Marco Ventura
Morti, razzi, milizie l'un contro l'altra armate, clan che si contendono terre e traffici, pizzi travestiti da balzelli e cambi di casacca non da un giorno all'altro ma da mezzogiorno alle tre del pomeriggio. La Libia è spaccata in tre (Tripolitania, Cirenaica e Fezzan) ma anche in dieci, venti, duecento, perché ogni milizia ha il suo feudo. Il precipitare della situazione significa per l'Italia «una voragine, un gigantesco buco nero che si apre di fronte a noi», dice il presidente del Cesi, Andrea Margelletti. «La stabilità della Libia è un nostro interesse strategico nazionale, perché la Libia è un po' il nostro Messico».

LA POSTA
In Libia si gioca la regolazione dei flussi di migranti, come dimostra l'esaurirsi degli sbarchi con la luna di miele Berlusconi-Gheddafi. E c'è potenzialmente anche un'emergenza energetica. Tempo fa Alessandro Pansa, direttore del Dis, cioè della struttura di Palazzo Chigi che coordina i servizi, spiegò che «la crescita del fabbisogno europeo di gas naturale e la prossimità geografica a importanti mercati di destinazione continuano a rendere la Libia, che non è più il nostro primo fornitore di petrolio ma ci garantisce il 10 per cento del nostro consumo di metano, un importante asset geo-strategico, anche in chiave prospettica». E poi, l'Eni resta «la principale società petrolifera internazionale attiva in Libia». La strategia africana dell'Italia dipende dalla pax libica e implica il successo o la disfatta della nostra politica estera e di difesa, ormai tutta focalizzata sul Mediterraneo come ponte naturale (ancora Pansa) che «unisce l'area con il più alto numero di migranti, 76 milioni in Europa, due in più che negli Stati Uniti secondo i dati del 2015, al corridoio continentale fra il Golfo di Guinea e il Golfo di Aden». La Libia significa Mediterraneo, Africa, ossia la direttiva geo-strategica degli ultimi ministri della Difesa fino all'attuale, Elisabetta Trenta, ma significa anche il cuore della politica estera illustrata dal premier Giuseppe Conte alla Casa Bianca.

LE INTESE
A Donald Trump, che ha dato il suo appoggio alla leadership italiana in Libia. A Misurata, che non è Tripoli ma può essere contagiata dai disordini, c'è il nostro ospedale da campo dell'operazione Ippocrate con circa 300 uomini. La perdita di controllo di Tripoli potrebbe però indurre gruppi armati islamici del Sud, secondo Margelletti, a marciare verso la capitale. E per alcuni la Settima Brigata, la milizia Al Kani di Tarhuna, 65 chilometri a sud di Tripoli, sfida il capo del governo di concordia nazionale, al-Serraj, da quinta colonna del generale Haftar. Decine di bande sono sul piede di guerra, ma neppure le potenti milizie di Zintan e Misurata hanno la forza sufficiente per imporre la legge a Tripoli.

LA POLITICA
Politicamente l'Italia ha puntato su al-Serraj, premier debole riconosciuto dall'Onu e, ufficialmente, dall'Unione Europea. Lo abbiamo aiutato con l'intelligence e con mezzi economici, abbiamo pure riaperto la nostra ambasciata a Tripoli (unici tra gli occidentali) mancata sabato per pochi metri da un razzo. La Francia però gioca in proprio e punta su Haftar, sia pur privo di qualsiasi investitura legale. E ha versato benzina sul fuoco, non contenta di aver voluto la disastrosa guerra per abbattere Gheddafi. Infine, il caos in Libia chiude le porte al rilancio dell'interscambio italo-libico che era di oltre 12 miliardi di euro nel 2010, un anno prima della guerra, e oggi ne vale circa quattro. Il fatto è che in Libia le milizie sono sensibili solo alla forza dei soldi e delle armi. La diplomazia non basta.
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