Felipe VI, il delicato ruolo della monarchia tra moderazione e legalità

Giovedì 5 Ottobre 2017 di Lucio Sessa
Quanti si aspettavano un intervento del re spagnolo Felipe VI per avviare un processo di pacificazione tra Madrid e Barcellona saranno rimasti delusi. L’intervento del re c’è stato, ma ha preso in modo netto e deciso le parti del governo centrale, bacchettando duramente il fronte catalano e finendo per gettare altra benzina sul fuoco. Chi si aspettava un intervento di altra natura, e con altri effetti, forse aveva in mente l’intervento di suo padre Juan Carlos, quando nel 1981, poche ore dopo il tentato colpo di Stato militare, apparve in televisione, all’una di notte, in divisa militare, e ordinò ai generali golpisti di rientrare nelle caserme. Negli anni immediatamente precedenti, il re aveva agito con energico equilibrio, fungendo da saldo punto di riferimento istituzionale, nella delicatissima fase di transizione dal franchismo alla democrazia.

Allevato e designato da Franco come suo successore, e salito al potere nel 1975, subito dopo la morte del dittatore, la sua decisa, e per molti versi sorprendente, scelta di campo a favore della democrazia, riconcilia il Paese con un monarca designato da un dittatore, ma non restaura automaticamente il prestigio della monarchia. D’altro canto, si pensi solo che durante la tragica guerra civile (1936-1939) il fronte anti-franchista era definito «repubblicano», sebbene il grosso delle sue forze fosse formato da socialisti, comunisti filo-sovietici, trozkisti, anarchici. Tuttavia, a causa dei meriti «acquisiti sul campo» da Juan Carlos, molti spagnoli che proprio non se la sentivano di dichiararsi monarchici, si dichiaravano «juancarlisti», arrivando al punto da definire il monarca «il re repubblicano». Santiago Carrillo, leader storico del Partico Comunista spagnolo, disse di lui che sarebbe stato un «eccellente Presidente della repubblica». Solo che la sua figura negli ultimi tempi è stata appannata da scandali poco regali che gli hanno consigliato di abdicare in favore del figlio, nel 2014, e la sua stella è tramontata al punto che nei festeggiamenti per il quarantennale del ritorno alla democrazia (le elezioni del 1974), nel giugno di quest’anno, durante il discorso dell’attuale re, Juan Carlos non era tra il pubblico perché non invitato dal figlio (o dalla Corte). Non avevano invitato proprio colui che di quella democrazia, di cui si stava celebrando il quarantennale, era stato uno degli artefici. «È stato come non invitare Napoleone alla commemorazione della battaglia di Austerlitz», ha scritto argutamente un giornalista di El Mundo, e persino il leader di Podemos, Pablo Iglesias, ha commentato che sarebbe stato più giusto vederlo tra i banchi del Parlamento. Forse il mancato invito aveva lo scopo di evitare l’imbarazzo di avere due re in sala, e di differente statura. Tuttavia, non si potrebbe dire che in fondo Felipe VI ha fatto come suo padre nel 1981, difendendo la legalità democratica? Ma sono troppo diverse le due questioni per paragonarle.

Nel caso del 1981, si trattava di scegliere per l’intera nazione la democrazia o il ritorno agli anni bui della dittatura, qui invece i contendenti sono lo Stato spagnolo da una parte e le pretese secessioniste di una regione dall’altra. In realtà, le relazioni tra la Catalogna e la monarchia spagnola sono sempre state storicamente conflittuali. Dopotutto la Diada, cioè la festa dell’orgoglio catalano che si celebra ogni anno l’undici settembre, commemora l’invasione di Barcellona da parte delle truppe borboniche, cioè l’attuale casa regnante, avvenuta appunto l’undici settembre del 1714. E durante le partite del Barcellona contro il Real Madrid, al diciassettesimo minuto e quattordici secondi del primo tempo, i tifosi catalani intonano canti indipendentisti e sventolano le «esteladas». Questo per dire che il 1714 non è una data seppellita nei libri di storia. E comunque la funzione socio-politica del Barcellona calcio, il cui logo, non a caso, dice «più di un club», non va ridotta a mero folclore: durante la dittatura di Primo de Rivera, sostenuta dalla monarchia, negli anni venti, lo stadio del Barça venne chiuso perché durante una partita i tifosi catalani avevano fischiato la marcia reale. Anche questo episodio la dice lunga sugli storici cattivi rapporti tra la Catalogna e l’istituzione monarchica. Nel 1930 cade la dittatura di Primo de Rivera, e con essa la monarchia. Nasce la seconda repubblica spagnola (1931-1936) e all’interno di tale istituzione, la Catalogna recupera quelle autonomie che le erano state sottratte dal precedente regime monarchico-autoritario. Durante la repubblica, sarà dall’interno di gruppi monarchici che nascerà la «falange», animata da generali ostili all’istituzione repubblicana, e fortemente nazionalisti.

Da questo movimento si originerà il franchismo e la sollevazione contro la legittima repubblica spagnola, nel 1936, che darà inizio alla terribile guerra civile spagnola. «Qualunque separatismo è un crimine che non perdoneremo», è uno dei tanti proclami della falange, che ha ereditato dal fascismo la mistica della Nazione.
Infatti, quando vinceranno non perdoneranno né catalani, né baschi. Franco restaurerà la monarchia nel 1947, anche se solo formalmente, in quanto se ne proclamerà reggente, indicando Juan Carlos come suo successore, e proclamandolo ufficialmente sovrano nel 1969. Tornando all’attualità, al netto della demagogia di Puigdemont e dei suoi alleati, forse è chiaro il senso storico della predilezione dei catalani, anche di quelli non indipendentisti, per la forma di governo repubblicana, ed è per questo che non crediamo che un sovrano, quand’anche fosse l’amato Juan Carlos, possa svolgere alcuna funzione di mediazione nell’attuale crisi istituzionale che scuote la Spagna. Che prenda finalmente l’iniziativa l’Unione Europea? ©
© RIPRODUZIONE RISERVATA