Brexit, l'economista Wolf: «Rompere con l'Ue è una follia. Si rischiano tensioni sociali»

Giovedì 30 Marzo 2017 di Flavio Pompetti
Brexit, l'economista Wolf: «Rompere con l'Ue è una follia. Si rischiano tensioni sociali»
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L'illustre giornalista finanziario inglese Martin Wolf ha pubblicato sul Financial Times un editoriale che suona come un grido disperato: «L'attuazione della Brexit è una tragedia per la Gran Bretagna e per l'Europa». Nell'articolo, Wolf ammonisce che il Regno Unito fuori dalla comunità sarà più debole, e raccomanda che riconosca questa debolezza nella trattativa con Bruxelles. Quando ha accettato di parlarne al Messaggero, gli abbiamo chiesto di iniziare con la difesa della causa contraria, quella di chi in Inghilterra sostiene che il paese sta per lanciarsi in una rinascita economica e politica.

Le sembra possibile che la Gran Bretagna possa uscire vittoriosa dalla Brexit?
«Chi l'ha proposta si rallegra oggi dell'unico vantaggio politico che si può argomentare: la riconquista della sovranità. Dal punto di vista economico sia da destra che da sinistra si sente la stessa lamentela: la Ue ha imposto all'Inghilterra limiti e regolamenti che hanno soffocato la piena espansione, e la libertà ritrovata dovrebbe ora favorire la crescita. La sinistra pensa che maggiori risorse potrebbero essere dedicate al welfare, la destra, di gran lunga più influente, crede che si possa ora passare ad un autentico regime di libero scambio, o perlomeno negoziare condizioni più vantaggiose nei rapporti bilaterali».

Si parla di una Gran Bretagna che seguirebbe la strada irlandese: poche tasse e poche regole per attirare aziende e capitali.
«C'è chi crede che l'Europa abbia agito da freno sulle ambizioni inglesi di inseguire la deregulation, e che ora il paese avrà maggiore libertà di azione. Ci sono forti spinte per una ridefinizione della nostra identità e della nostra economia in perfetto isolamento, senza tenere conto della realtà che ci circonda, da quella geografica a quella delle regole commerciali con le quali dobbiamo in ogni modo confrontarci. Pochi vogliono ammettere quello che a me sembra invece evidente: il presente è ora pieno di incertezza per le sorti della nostra economia, per quelle della tenuta territoriale della Gran Bretagna e per le tensioni etniche e sociali che si svilupperanno dopo il taglio del cordone amministrativo che ci legava all'Europa».

E lei cosa crede invece che succederà?
«Mi rifiuto di aggiungere la mia voce al coro di quanti pensano di vedere chiaramente il futuro. La realtà è che la situazione che si è venuta a creare non ha precedenti, ed è impossibile fare previsioni. Mi limito solo a dire che molto dipenderà dalla qualità e dal contenuto degli accordi che dovremo stipulare, a cominciare da quello più imminente e importante, che riguarda l'Europa. Ci troveremo tra l'altro a farlo in un quadro globale di massima incertezza dagli Usa alla sorte della Scozia, che certo non ci aiuta a trovare chiarezza. Perdere il treno dei rapporti con l'Europa sarebbe una follia, eppure c'è persino chi lo predica in questi giorni, nella convinzione che la nostra produzione industriale potrebbe diventare tanto competitiva da compensare eventuali tariffe doganali».

Anche su questo punto il paese è molto diviso.
«Occorrerebbe umiltà di fronte alla situazione che si è creata, e la Gran Bretagna farebbe bene a riconoscere il debito che deve all'Europa come premessa per la trattativa. Ma questi non sono tempi di umiltà. Se dovesse imporsi l'idea di rompere completamente con l'Europa avremo anche una svolta politica nazionalista e interventista. E di fronte a questa opzione io penso che i sogni di chi aspetta la deregulation si infrangerebbero di fronte alla realtà di un governo che vorrà controllare e intervenire nei dettagli della nostra vita sociale ed economica. Sarebbe un disastro».

È davvero questa la strada sulla quale si avvia l'Inghilterra?
«Voglio augurarmi che il negoziato vada in porto, e che resteremo alleati dell'Europa. Avremmo ugualmente un governo conservatore in casa nostra, ma non lontano dall'attuale indirizzo politico. Un indirizzo che in realtà è accettato e approvato dalla maggioranza degli inglesi. In questo caso la transizione del dopo Brexit potrebbe anche essere indolore, a patto che non ci siano nel frattempo crisi globali, o che la mina vagante Donald Trump non produca danni irreparabili per tutti».

In realtà la svolta inglese ricorda l'eccezionalismo e il protezionismo che Trump sta imponendo agli Usa. Siamo di fronte ad un rafforzamento dell'asse atlantico tra i due paesi?
«I nostri politici se lo augurano, ma io penso che non sarebbe affatto una conquista per l'Inghilterra. Trump sta rifocalizzando gli interessi del suo paese all'interno dei confini nazionali. Nello scambio ci chiederebbe probabilmente sacrifici maggiori di quelli che l'Europa ci ha imposto fino ad ora, e alla fine del conti i nostri scambi commerciali ne uscirebbero penalizzati. Più che una prospettiva di apertura per il futuro, molti di noi vedono un ulteriore avvicinamento agli Usa come l'unica carta sul tavolo, e più che auspicarla, ne temono l'inevitabilità».

Gli Usa sono comunque il secondo partner commerciale per la Gran Bretagna.
«Ma dal punto di vista politico noi non abbiamo molto in comune con il partito repubblicano. Obama ha goduto nel nostro paese di una popolarità immensamente superiore a quella che oggi ha Trump in Ighilterra, e la gran parte di noi non riesce ad abbracciare le vedute e i comportamenti dell'attuale amministrazione americana. Non è difficile immaginare che ci dovessimo venire a trovare davvero isolati dal resto dell'Europa, finiremmo per perdere una buona parte della sovranità nazionale nel rapporto con gli Stati Uniti. Sarebbe questa la beffa finale per chi ha sognato la libertà e una maggiore indipendenza per il nostro paese!».

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