Milano, al via dopo 30 anni il processo per l'omicidio della studentessa ventenne Lidia Macchi

Giovedì 6 Aprile 2017 di Claudia Guasco
Lidia Macchi e Stefano Binda
Una lista di 466 testimoni: amici e familiari della vittima e del presunto assassino, investigatori, periti, sacerdoti, i ragazzi del gruppo di Comunione liberazione frequentati da Lidia negli anni ‘80, medici, infermieri e anche un magistrato. Un lungo elenco di nomi che hanno tra loro una persona in comune: Lidia Macchi, uccisa a vent’anni nel 1987, accoltellata in un boschetto nei pressi di Varese, morta per le ferite e per «asfissia dopo una lunga agonia in una notte di gelo». Il prossimo 12 aprile, trent’anni dopo l’omicidio, si aprirà il processo a carico di Stefano Binda, ex compagno di liceo della ragazza e come lei militante di Cl. L’accusa chiederà la citazione di 83 testimoni, cento la difesa e 283 l’avvocato parte civile per la famiglia Macchi.

REPERTI DISTRUTTI
Davanti ai giudici sfileranno la mamma di Lidia, Paola Bettoni, e la sorella Stefania, don Giuseppe Sotgiu, ai tempi amico dell’imputato la cui testimonianza - al termine dell’incidente probatorio - venne trasmessa alla Procura affinché lo indagasse per falsa testimonianza, monsignor Piergiorgio Bertoldi, amico di Binda oggi nunzio apostolico in Burkina Faso, e monsignor Marco Ballarini, della Biblioteca ambrosiana di Milano. Chiesta anche la deposizione di Ottavio D’agostino, il giudice attualmente in pensione che autorizzò la distruzione di alcuni reperti fondamentali nel fascicolo sulla morte di Lidia. Ora non c’è più una briciola di dna da analizzare e la teste chiave è Patrizia Bianchi, ai tempi molto vicina a Binda, che ha riconosciuto la calligrafia dell’imputato nella poesia “In morte di un’amica” spedita in forma anonima alla famiglia il giorno del funerale di Lidia. «Mi colpiva la grafia - ha spiegato agli investigatori - in quanto da subito mi sembrava familiare. Così andavo a riprendere le cartoline che mi aveva spedito in quegli anni Stefano e con sorpresa notavo una grande somiglianza nella grafia».

GUERRA DI PERIZIE
Un esame calligrafico, secondo l’accusa, ha poi dato conferma alle impressioni della donna: la perizia di parte, eseguita su mandato della procura generale di Milano, ha certificato questa affermazione. E anche Patrizia Binda, sorella di Stefano, intercettata mentre guardava una trasmissione televisiva in cui si mostrava la lettera, ha esclamato: «Ma quella è la scrittura di Stefano». In sede di udienza preliminare tuttavia, i legali di Binda - Patrizia Esposito e Sergio Martelli - hanno depositato una seconda perizia nella quale si sostiene che quella non è la grafia dell’imputato.

Non solo: Binda non avrebbe scritto nemmeno l’intestazione sulla busta né sarebbe l’autore del famoso appunto, trovato scritto su un foglio conservato tra le agende Smemoranda del 1987 e sequestrate a casa sua, nel quale è scritto: «Stefano è un assassino». Il processo si preannuncia dunque combattuto, a distanza di trent’anni e senza l’aiuto di un dna da confrontare i giudici dovranno decidere se è stato Binda a uccidere Lidia, uscita di casa il 5 gennaio ‘87 per andare a trovare un’amica ricoverata all’ospedale di Cittiglio e mai più tornata. Per giorni interi genitori, amici, compagni di Cl e forze dell’ordine l’hanno cercata ovunque. Alla fine il suo corpo martoriato dalle coltellate - alcune alle spalle, sferrate mentre tentava di scappare - è stato trovato in un boschetto. Binda, si legge nel capo d’imputazione, l’avrebbe sorpresa nel parcheggio dell’ospedale e sarebbe salito sulla sua macchina. L’avrebbe violentata e poi punita uccidendola, perché concedendosi «ha violato il suo credo religioso». Davanti ai magistrati, Binda si è sempre avvalso della facoltà di non rispondere.
Ultimo aggiornamento: 7 Aprile, 09:24 © RIPRODUZIONE RISERVATA