Mafia Capitale, lo show di Carminati: «Io, fascista anni '70, accuso chi mi accusa. Più onesti noi che in Campidoglio»

Giovedì 30 Marzo 2017 di Mario Ajello
Massimo Carminati

Michele Greco, il «papa» di Cosa Nostra, si descriveva come un «coltivatore diretto», esperto di agrumi. Bernardo Provenzano si raccontava così: «Sono solo un contadino».

Ed eccoci di nuovo, mentre Carminati parla dal 41 bis del super-carcere di Parma, video-collegato con il processo nell'aula bunker di Rebibbia, in un topos della strategia mafiosa: la finta umiltà per rimarcare di essere un mammasantissima, il rimpicciolimento di sé come messaggio e come depistaggio. Massimo Carminati, più Piovra che Suburra, dalla sua gabbia si rivolge alle altre gabbie - e in una c'è Buzzi a Tolmezzo, in un'altra Brugia a Terni e nel gabbione romano numero tre i pariolini di politica e affari Gramazio e Testa e con loro Spezzapollici in felpa degli Irriducibili della Lazio - e adotta il codice dei boss minimizzando e derubricando: «Io a ffa' strategie criminali? Ma me ce vedete? Io so' de strada. E so' solo un vecchio fascista degli anni 70. Credo ancora in quei valori e sono contento di essere così. Non faccio il rifardito!».

MI CHIAMANO SCAMARCIO
Il rifardito cioè il pentito. Ovvero dice ai sodali di Mafia Capitale di resistere, di non arrendersi e «noi, signor giudice, siamo ancora tutti uniti come amici e come fratelli da quando avevamo 16 anni e militavamo nei nostri gruppi». Er Cecato, anzi il Nero o meglio il Samurai («I giornali m'hanno ridotto a macchietta da fiction, da Romanzo Criminale, e anche la mia compagna a un certo punto ha cominciato a chiamarmi: a Scamarciooo!»), fa di tutto, mentendo e smentendo nei suoi pizzini, per dipingersi come uno che al massimo dice «qualche bugia, come sto facendo oggi» («Sei un grande, Massimo!», urlano dal fondo della sala il fratello Sergio con uno spadone tatuato sul braccio e la bionda fidanzata Alessia Marini) e insomma: «Io sarei la mafia del benzinaro di Corso Francia e Buzzi la mafia delle cooperative? Ma la volemo fini' co' ste leggende?».

La leggenda del fascista sì e mafioso no è il suo modo per rivendicare il ruolo da duro e da potente («Se non ci fossi io, questo processo sarebbe stato una cosa ridicola, manco lo facevano») e insieme per negare ciò che è: l'incarnazione di un anfibio criminale. In cui la dimensione stradaiola e finto proletaria tutto slang, e i soldi sono «piotte» e «sacchi», si mescola con Roma Nord ed è tutto un Vigna Clara il suo racconto fatto di controllo del territorio («A Corso Francia mi conoscono tutti e io conosco tutti i poliziotti di Ponte Milvio da 20 anni») e questo doppio milieu di violenza e di minacce («Io avrei detto di Mancini lo faccio strilla' come n aquila sgozzata? Ma era solo una battuta, lui è mio fratello») si lega e si salda con il livello politico.

Quello degli affari del Comune e delle industrie di Stato; degli appalti, dei faccendieri e dei banditi in cachemire e K-Way (se ne vede qualcuna nella gabbia numero tre); dell'odore di servizi segreti («Ma vi dovete decidere: io so' Fantomas o sono n cretino?); e del sistema criminale a tutti i livelli, tra blazer, pseudo presentabilità, minacce e bastonate («Io? Mai menato nessuno. Neppure un cazziatone»). Ma non si accorge di stare confessando questo intreccio purulento di mondo di sopra, mondo di sotto, mondo di mezzo quando lui, il re del mondo di mezzo, l'inventore di questa immagine, a un certo punto si lascia sfuggire: «Ho passato 13-14 anni della mia vita in carcere. I pregiudicati d'Italia li conosco tutti. E tendo a frequentare persone migliori di me». Sorride il politico Gramazio nella sua gabbia. Staranno sorridendo quelli dei poteri marci del Pd, invischiati in Mafia Capitale, sorride pure Buzzi dal suo video: e i due si salutano affettuosamente.

ANFIBIO
Er Cecato l'anfibio, anche nel senso di fasciocomunista che ha fatto il saluto romano l'altro giorno quando Buzzi ha detto «eravamo la Terza Internazionale, il sindacato, il partito più Carminati», incarna la permeabilità al peggio delle varie sfere. Ma non fa che accusare Alemanno (e quelli del Pd? Non li nomina mai), dice che «lui è un truffatore e un sòla» e che «il Comune ci faceva fare i lavori e non ci pagava e io ad Alemanno gli avrei sfondato la porta a calci», e rivendica una fantomatica estraneità rispetto alle «anime belle del mondo di sopra». Sintetizzandola così: «Quelli del Comune rubano. Io vengo da un mondo più onesto, a livello più basso.

Noi abbiamo solo tre comandamenti ma li rispettiamo tutti e tre. Quelli del mondo di sopra di comandamenti ne hanno dieci e li tradiscono tutti quanti». Eppure non regge il racconto del minimizzatore seriale («Io avevo la katana come il Samurai del libro? Macché, solo un coltello per sfilettare il tonno»). Sentendolo negare ogni intreccio politico-affaristico-criminale, viene da pensare proprio all'opposto, a quelle pagine di Francesco De Sanctis, il grande patriota nato 200 anni fa, antiche ma perfette per descrivere la mafia di Buzzi e Carminati: «Quegli interessi di consorteria criminale che sulla testa dei cittadini formano uno strato di falsa democrazia, che li sfrutta, e che è corrotta e corruttrice».

Ora non c'è Tor Lupara o Tor Bella Monaca ma il posto più periferico, a parte i campi rom, è un bar di Piazza Tuscolo nelle parole del Nero, che era continuamente ubicato tra il benzinaio di Corso Francia e, lì di fronte, il negozio Blue Marlin della compagna Alessia. E parla di commercialisti, come l'amicissimo Iannilli, di sodali che hanno fatto i soldi e si sono piazzati bene (il camerata Mancini all'Ente Eur) e non c'è nulla dell'outsider, anche se lui fa di tutto per sembrarlo, nel profilo criminale del Cecato. La cui impronta su Roma e la cui piovra che ha aggredito e mangiato la città non restano soltanto come una vergogna. Ma come un lascito immondo, e ramificatissimo, che risulta maledettamente difficile da superare.

Ultimo aggiornamento: 11:27