Macerata la "buonista" ora in preda alla paura: «Qui non si vive più»

Lunedì 5 Febbraio 2018 di Mario Ajello
Macerata la "buonista" ora in preda alla paura: «Qui non si vive più»
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dal nostro inviato

MACERATA - Città accogliente, buonista, di sinistra, da cristianesimo illuminato più cattocomunismo e progressismo accogliente e terzomondista. Ebbene, Macerata da quel che era sembra essersi trasformata nel suo opposto. È diventata il simbolo del grande però. E' la parola che risuona ovunque. Perfino alla messa della domenica nella chiesa dell'Immacolata, mentre il prete esalta i valori evangelici della convivenza: «Però i neri sono troppi», sussurrano i fedeli. Poi aggiungono, uscendo dalla cerimonia: «Traini ha esagerato, però la pazienza non è infinita».

E così, «però.... però.... però...» (lo stesso fonema già sentito a Rimini nello scorso agosto di fronte alla caccia all'uomo contro i richiedenti asilo) ripetono tutti o quasi i maceratesi lungo la road map, pieno centro storico di questa civilissima città, delle centinaia di spari esplosi dall'invasato razzista: via dei Velini, via Piave, piazza della stazione, corso Cairoli, via Croci, via Spalato, piazza Garibaldi al bar King. Ieri chiuso ma sul marciapiedi un gruppo di anziani commenta: «Traini andava tenuto in un manicomio, ma purtroppo li hanno aboliti». E se la prendono più con Basaglia che con Salvini. I dati Istat dicono che l'invasione degli stranieri a Macerata non c'è e probabilmente è così. Anche se ai 3.879 residenti extracomunitari - cresciuti di niente rispetto a 5 anni fa in cui erano 3.874 - vanno aggiunti i clandestini che dormono nei sottopassaggi pedonali e risultano presenze inquietanti e anche se la cosiddetta paura percepita va presa sul serio perché nulla, socialmente, politicamente, è più reale della percezione.

DAVANTI AL MONUMENTO
Lo ammette anche il sindaco, dem, Carancini, una brava persona che parla a Piazza della Vittoria, davanti al monumento con tanto di fasci littori dove il Traini s'è fatto arrestare, avvolto nella bandiera tricolore: «Chi è già razzista - dice il sindaco, dolente - prende la pistola. Chi non lo è rischia di diventarlo». Ossia viene preso dai dubbi, da quei «proverbiali pensieri che non condivido», come dice l'omino progressista e di sinistra disegnato da Altan, consapevole di essere diventato interiormente destrorso ma incapace di ammetterlo (qui la Lega non esisteva e il 4 marzo esisterà) e affezionato a Berlinguer perché era Berlinguer ma a un certo punto, pur facendosi il segno della croce, chissene.

Dopo il vescovo, anche il prete dal pulpito dell'Immacolata se la prende senza nominarlo con Salvini («Le parole forti possono diventare armi»), ma tutti sanno che Salvini è solo una parte del problema. Fuori dalla chiesa di solito ce ne sono tanti, ma ora c'è soltanto un ragazzo nero - gli altri sono tappati da qualche parte per paura, e usciranno fuori solo nel tardo pomeriggio quando si svolge ai giardini Diaz la manifestazione anti-razzista: una cinquantina di persone tra alternativi e ceto medio riflessivo - e chiede l'elemosina. Gli viene data dai bravi cristiani, ma solo per ricordare a se stessi che è meglio essere buoni, anche se ormai il dubbio se convenga esserlo oppure no dilania veramente tutti. E perfino entrando alla Caritas, sempre in centro, si resta sbigottiti ascoltando le volontarie che pur coccolando i ragazzi di colore affermano: «Salvini ha ragione, l'immigrazione va governata». Questa insomma è un'Italia che ha cambiato pelle. È la stessa Italia che, se il Traini avesse sparato a Perugia, a Rimini o in qualsiasi altra città di qualsiasi colore politico, avrebbe reagito alla stessa maniera. Soffrendo a pensare come è diventata.
Un'immagine racconta il capovolgimento storico in atto.

Nella sede del Pd di via Spalato, presa a pistolettate dal matto fascio-leghista e a pochi passi dall'abitazione del presunto assassino di Pamela, sono riuniti con il vicesegretario nazionale arrivato di corsa da Roma, Maurizio Martina, un gruppetto di militanti. Che non sanno che cosa fare e che cosa dire, a parte le solite ovvietà: «Non dobbiamo sottovalutare». Davanti alla sezione dem si presentano una quindicina di militanti di Forza Nuova, dall'aria minacciosa con le loro croci celtiche ma non in vena di violenze, e improvvisano un comizio contro l'accoglienza e l'insicurezza in cui vivono i cittadini abbandonati dalle istituzioni e dai partiti. Gli umori dei maceratesi, dopo la tentata strage ai danni dei nigeriani e dopo l'uccisione di Pamela fatta a pezzi da un nero, sembrano essere («Ormai ci sentiamo invasi dagli africani») più in sintonia con Forza Nuova che con il Pd. Tanto è vero che qui non è venuto Renzi, ma ha preferito mandarci Martina.

Macerata è la città che rispecchia a perfezione la diagnosi, sulle Marche, contenuta nell'ultimo numero densissimo della rivista Il Mulino, intitolata «Viaggio in Italia. Racconto di un Paese difficile e bellissimo», in cui si legge che queste popolazioni «hanno scoperto di non essere più al sicuro né più dimenticate in un angolo di mondo tranquillo». Qui due paure in queste ore si guardano in cagnesco. Gli immigrati temono di subire altre violenze. I maceratesi tremano all'idea di diventare obiettivi della vendetta degli africani.

IL RACCONTO DI BUBA
Racconta Buba, 25 anni, arrivato del Gambia, che dorme per strada, bivacca ai giardini Diaz e parla un italiano perfetto: «Le tivvù ci descrivono come dei delinquenti e la gente ci crede. Questo è il problema». In parte è così, ma in più c'è lo spaccio, il degrado e tutto il resto. E l'orrore capitato a una ragazza fatta a pezzi da un nigeriano, e infilata in due valigie, è molto più della banalità del male. È la violenza che ha scatenato violenza, è il sangue di Pamela a cui ha risposto la tentata strage razzista, e rappresenta quasi un contrappasso il fatto che tutto questo avvenga qui, nella patria della mezzadria - che ha storicamente significato stabilità e progresso rispetto al latifondo - e dei grandi riformatori settecenteschi nel campo agricolo e culturale che sperimentarono le migliori idee innovative di quell'epoca e di quelle successive.

Per non dire di Matteo Ricci, il gesuita grande conoscitore della Cina, che era di Macerata e fu nel 600 tra gli inventori dell'apertura al mondo. Insomma qui la ragione ha sempre prevalso sulle viscere. Ma non è più così, anche se stiamo parlando di un posto non povero, con qualità della vita medio alta e disoccupazione giovanile sotto la media. Ma se perfino alla Caritas, a due passi dalla centralissima Torre dell'Orologio, dicono che «il multiculturalismo non funziona più», urge rivedere tutto. Perché la paura genera odio, e non solo a Macerata.
Ultimo aggiornamento: 10:42 © RIPRODUZIONE RISERVATA