Luca Traini al bar disse: «Faccio una strage». Ecco chi è il nazi-giustiziere tutto palestra e svastiche

Domenica 4 Febbraio 2018 di Andrea Taffi
Luca Traini (ansa)
«Stamattina vado a Macerata e faccio una strage». Le idee lucidamente folli di Luca Traini schizzano fuori da un caffè avvelenato: sono le 9.30 al bar del distributore Ip della Statale 77, l'unica stazione di servizio tra Tolentino e Macerata, direzione mare. La quiete prima della tempesta e l'annuncio del raid xenofobo si incrociano sopra una vita da tempo più fuori che dentro la linea rossa dell'equilibrio. Il profilo del giustiziere di Tolentino si staglia così, tra i chiaroscuri di un'esistenza dove ormai faticava a tenere insieme tutto: il rapporto difficile con la famiglia, l'abbandono del padre quando era piccolo, il rapporto conflittuale con il fratello e la mamma che lo aveva costretto a rifugiarsi dalla nonna, a Tolentino.
 
 

LE URLA
A giudicare dalle urla che sentivano i vicini non era un buen retiro ma solo l'ultimo domicilio rimasto dove tentare di ancorare una condizione precaria su molti fronti. Quella affettiva, rimasta sfilacciata dopo una relazione finita male con una ragazza e dopo la quale è fiorita la sua passione per l'ultradestra; quella delle amicizie legate alla sua ossessione della cura del corpo e delle diete dopo che era stato messo alla porta dalla palestra per i suoi atteggiamenti estremisti. E anche la strada della politica non aveva sortito granché: ai banchetti di Forza Nuova e Casapound lo conoscevano come «invasato», poi era entrato nel recinto della Lega con zero voti raccolti alle Comunali di Corridonia l'anno scorso.

Traini fondamentalmente era un lupo solitario, rasato a zero, tatuaggio sulla tempia destra, la zeta rovesciata e tagliata a mo' di svastica, simbolo di Terza Posizione, i neofascisti anni 70-80. Si vedeva spesso al poligono, dove andava a sfogarsi sparando contro le sagome e garantendosi la scusa buona per avere porto d'armi e pistola, ennesimo caso che riapre la ferita mai chiusa dei permessi facili. E poi c'era l'ultima frontiera prima della linea rossa. Traini era stato assunto ai primi di dicembre alla Agrifactory di Piediripa, azienda agricola che si occupa di allevamento bovini. Contratto di prova, 1100 euro al mese, consegnava i pacchi di carne alle macellerie.

I COLLEGHI
«Un tipo taciturno, - dicono i colleghi - lo chiamavamo orso buono». Certo, nelle pause pranzo, dalle frasi si capiva il suo pensiero. «Ce l'aveva con i comunisti - continuano i colleghi - diceva sempre che lui, fondamentalmente, era un anti-comunista. E poi gli spacciatori erano diventati la sua ossessione. Raccontava che gli spacciatori erano tutti neri. Come la pensava politicamente si capiva. Ma pensi allo sbruffone che spara alla luna. Che arrivasse a fare questo, no».

In Agrifactory era arrivato tramite agenzia interinale: aveva lasciato un curriculum dove c'era scritto che aveva svolto oltre al manovale e al buttafuori, consegne nella zona per un'altra ditta. Esattamente quello che serviva. Nessuno, in azienda, sapeva che era stato in cura da uno psichiatra («mi hanno detto che sono borderline» sbandierava in palestra ai quattro venti) ma si erano accorti che la macabra fine di Pamela lo aveva segnato profondamente. «Ma guarda se una ragazza così deve fare quella fine» diceva sconsolato dopo mercoledì scorso. Qualcuno vicino alla Lega di Macerata aveva mormorato di un'amicizia tra Luca e una ragazza tossicodipendente in cura nella zona. Legame smentito da tutti, non c'era nessuna vendetta personale in questa storia. Solo il raptus omicida di uno squilibrato che dopo il Far West in un'ora è ridisceso a valle, è tornato a casa per parlare con la mamma e poi tornare su, a Macerata. Drappo tricolore, saluto romano e poi il sipario.
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