Valeria torna a Cannes con una certa Euforia

Mercoledì 16 Maggio 2018
CINEMA
CANNES
Si direbbe che paradossalmente l'euforia che sta attraversando la sponda italiana dopo le prime proiezioni nostrane al festival (Savona in Quinzaine e soprattutto Alice Rohrwaher in Concorso), si afflosci un po' proprio nel giorno in cui l'Italia presenta in Un Certain regard il secondo film di Valeria Golino, che s'intitola appunto Euforia. Non che il film sia brutto, ma rispetto a Miele, opera prima da regista dell'attrice napoletana, è molto più irrisolto cercando un equilibrio tra una storia di malattia (la morte che ritorna ancora come tema dominante), una di fratellanza (l'esuberante gay Scamarcio, il più introspettivo Mastandrea) e un'altra di omosessualità, senza forse scegliere un tema dominante (ma questo non sarebbe un male) e con una sceneggiatura che non sempre accompagna il racconto su un percorso lucido nel suo divenire. Ma resta comunque una prova di sicuro interesse, forse da aggiustare prima dell'uscita in sala.
I PROTAGONISTI
Valeria, Riccardo e Valerio (e le altre: Isabella Ferrari, Jasmine Trinca e Valentina Cervi) sono qui, più o meno acciaccati: «Mi sono appena slogata una caviglia» annuncia la regista; «Io ho un mal di schiena terribile» aggiunge Mastandrea. E mentre Scamarcio in apparenza è integro, la Golino cala l'asso: «Durante le riprese non c'era giorno in cui qualcuno non si facesse qualcosa». Va beh, d'altronde nel film è la malattia (e dunque la morte) la protagonista. Ma la regista non voleva farne un dittico: «No, non c'è stata una volontà iniziale. Poi col senno di poi indubbiamente il riferimento può venire facile. Sono due film speculari e opposti, mi fa piacere che si trovi un fil rouge continuo, ma è nato inconsciamente, anche se nel tema esistenziale la morte è la regina, presente sempre nel nostro pensiero e nelle nostre paure, in un mondo dove ogni giorno succedono cose sempre più gravi».
Un film nato a piccolo sorsi: «Lo stavo cercando da tempo. Non mi convincevano mai troppo le storie che trovavo e che mi proponevano. Poi un mio amico stava vivendo una storia simile e mi è sembrato fosse la storia giusta. E quindi da lì siamo partiti. Autobiografico no, come non lo era, se non in parte, anche Miele, ma credo che ogni autore metta sempre qualcosa di proprio in ciò che racconta» conclude Valeria.
Intanto Valerio e Riccardo si lanciano in piccole gag su una terrazza che spazia sul mare: «Io toglievo e, detto fra noi, sono anche stufo di togliere, e Riccardo aggiungeva cose al film, ma non sono i dialoghi a renderlo credibile, ma l'atmosfera che si crea, com'è la messa in scena», dice Mastandrea.
Stare con gli amici di sempre, con le persone con cui si è diviso anche parte della propria vita, rende il lavoro più facile e ora ecco Cannes: «Speravo di venire al Certain Regard. Certo poi una non rinuncerebbe mai al Concorso, ma sono ancora piccola come regista e voglio stare più a lato. Così mi sento più protetta». E comunque stare qui è già un gran risultato.
VON TRIER CRUDELE
Di certo euforia non ne ha generata il ritorno del danese Lars Von Trier non grato a Cannes, dopo le sue esternazioni pro Hitler nel 2011. Il suo film The house that jack built ha creato qualche mancamento e diversi abbandoni durante la proiezione ufficiale, dato l'alto tasso di crudeltà dell'opera, con uccisioni spietate (anche di bambini), squartamenti, anche se più insopportabile è stata la noia. Al solito un'opera saccentemente e pretestuosamente provocatoria, dove il regista si comporta con lo spettatore come il serial killer Jack con le sue vittime. Ma se Cannes cercava un'altra strada per finire sulla pagina dello scandalo, questa era sicuramente la più sicura.
Adriano De Grandis
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