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(...) la parentesi del regime collaborazionista di Vichy.

Martedì 23 Gennaio 2018
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(...) la parentesi del regime collaborazionista di Vichy. La voglia di collaborazione non nascondeva anche differenze e distanze, che si sarebbero protratte nei decenni successivi. Adenauer era interessato alla ricostruzione materiale dalla Germania, soffriva la divisione dei territori dell'Est dalla madrepatria, temeva l'Urss e vedeva negli Stati Uniti e nella Nato un baluardo a difesa dell'occidente libero. De Gaulle inseguiva invece il suo sogno di un'Europa politicamente sovrana sino agli Urali, vagheggiava l'egemonia franco-latina sul resto del continente in polemica col mondo anglosassone, da militare puntava sulla potenza militare più che sulla crescita economica.
Il contesto odierno, spessore e ambizioni dei protagonisti a parte, quanto giustifica l'enfasi retorica e la solennità con cui il nuovo accordo è stato presentato alla stregua di una riedizione anche più vincolante e pregnante sul piano politico di quello del 1936? Siamo davvero ad un nuovo tornante della storia o stiamo assistendo ad una celebrazione dal sapore vagamente anacronistico? L'Europa odierna probabilmente è troppo grande e ha equilibri interni troppo complessi per affidare il suo futuro politico all'egemonia di due soli Stati che pensano di poter decidere per conto di tutti gli altri. Dove sta l'omogeneità di visione politica e di tessuto istituzionale tra i due Paesi che dovrebbe far marciare spedito il nuovo trattato? In Francia Macron ha sbaragliato la tradizionale dicotomia destra-sinistra, annichilito i partiti storici e dato vita ad una presidenza di stampo personalistico-tecnocratico che sembra rappresentare l'altra faccia, non meno inquietante, del populismo. In Germania le culture politiche tradizionali invece sopravvivono ancora, ma sempre più deboli e in crisi d'identità; e se cristiano-popolari e socialisti governano di nuovo insieme, secondo la formula della Grande Coalizione, è ormai più per inerzia di sistema che per convinzione o condivisione di una qualche idea di società e di sviluppo.
Se proprio si vuole dare un senso politico a questo nuovo trattato lo si deve allora cercare nel volontarismo, nell'attivismo di piglio quasi napoleonico, che sembra caratterizzare Macron e che lo vede muoversi solitario e spavaldo su una scena europea oggettivamente povera di leader e di idee. Da un lato, si insiste sulla strada di un'integrazione tutta giocata in chiave tecnico-burocratica e di stampo economicista: è l'idea che basti rivedere Maastricht con una nuova regolamentazione della spesa pubblica al posto del deficit al 3% per dare all'Europa una missione e un'anima. Dall'altro, si punta a togliere sempre più potere politico e spazio culturale agli Stati e alle nazioni che storicamente la compongono e che dovrebbero rappresentare la sua vitale diversità e la sua unicità.
L'Europa sovrana, unita e democratica vagheggiata da Macron come necessario superamento di quella basata sugli accordi intergovernativi e sul ruolo ancora troppo preminente degli Stati è insomma una formula che rischia di sacrificare, al di là delle buone intenzioni, la democrazia politica (dunque i diritti dei cittadini) ad un'unità meramente funzionale e tecnica. Rispetto a questo disegno, il populismo non è certamente una soluzione, di sicuro è l'espressione politica di un disagio reale dei cittadini che nessuna retorica europeista può soddisfare.
Senza cedere al trionfalismo degli annunci, questo nuovo accordo a due comunque una sua utilità può averla. Può infatti rappresentare uno strumento diplomatico utile a integrare, attraverso intese bilaterali finalizzate ad affrontare problemi specifici e di rilievo preminente per gli Stati sottoscrittori, i trattati europei. Esattamente in questo quadro andrebbe anche inserito il progetto di un accordo tra Italia e Francia, già denominato Trattato del Quirinale, annunciato da Macron e Gentiloni nel corso del loro recente incontro romano. Non tutti i Paesi europei hanno gli stessi interessi. La Finlandia non vive l'immigrazione dal sud del mondo come la Grecia. La Germania non ha con l'Africa gli stessi rapporti che possono avere l'Italia o la Francia. Nulla di strano che si stringano, tra singoli Stati che hanno tematiche comuni da affrontare, accordi operativi e di collaborazione. Basta non presentarli come atti politici destinati a entrare nei libri di storia o a cambiare il destino dei popoli.
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