«Polentoni per nostalgia»

Lunedì 18 Dicembre 2017
«Polentoni per nostalgia»
L'INTERVISTA
Perché i veneti continuano a essere chiamati polentoni?
«La più antica sagra della polenta si tiene in Veneto a Villa d'Adige. Da qui può partire la rivoluzione al grido di polentari di tutto il mondo unitevi. E arrivano da ogni parte del mondo e in ogni parte hanno esportato e diffuso la polenta. Il cibo è il primo elemento che costruisce l'identità di un popolo». Danilo Gasparini, 65 anni, trevigiano di Istrana, sa tutto sulla polenta e sul mais. Insegna storia dell'alimentazione all'università di Padova, ha tenuto per anni corsi all'ateneo di Parigi sulla storia agraria del Veneto. Ospite fisso della trasmissione di Rai3 Geo&Geo, accademico dei Georgofili, autore di saggi.
I veneti dicevano: Meglio polenta senza niente che niente senza polenta
«Un mese fa nel Palazzo dei Trecento a Treviso a un importante convegno su tradizione e innovazione mi sono presentato con una fetta di polenta in mano. La polenta è stata nel tempo la grande innovazione per i veneti, poi è stata svuotata e trasformata in contenitore di nostalgia. Anche per questo si cerca di recuperare alcune varietà antiche come il cinquantino. Il mais cinquantino era un'invenzione contro la fame: un secondo raccolto, con un ciclo breve, poverissimo di tutto. Quello da consumare in casa, il resto si vendeva. Dopo la guerra, col Piano Marshall, la polenta è stata oggetto di uno scontro politico tra la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista: la prima voleva diffondere nelle campagne gli ibridi americani, il secondo voleva difendere le oltre 800 varietà di mais che c'erano in Italia. Ma ora che la polenta non è più cibo di necessità, si tende a dimenticare che il Veneto era poenta e peagra, che voleva dire polenta e pellagra, polenta e miseria. Il sogno era quello di eliminarla dalla tavola e sostituirla col pane! Ora, però, c'è questa voglia di rimuovere il passato di poveri, di emigranti, senza accorgersi che rimuoverlo è anche negarlo».
Ma parliamo di un tempo che sembra lontanissimo.
«Io non vengo da un tempo così lontano, sono figlio di contadini, ricordo la stagione dei pestarei e dei patuoi: semolini nei quali mettevi dentro un po' di polenta sul latte, mangiavi con un cucchiaio col buco perché così lasciavi il latte che serviva per gli altri fratelli. Era un problema di dare un gusto, di condire con quello che avevi. L'icona è rimasta l'aringa appesa, c'era chi la metteva dentro una bottiglia di vetro, la mangiavi con gli occhi».
Come era il Veneto contadino degli Anni Cinquanta?
«Sono cresciuto dove al mattino eri svegliato dall'odore delle stalle. Ho nella mia memoria il profumo delle stagioni, il freddo aveva un profumo. Ricordo la fatica che ho fatto per anni nel lavorare i campi. Nelle notti d'estate in cui irrigavano il mais, dovevi aspettare che arrivasse l'acqua, al buio pesto e nel silenzio profondo. Mio padre non voleva che io frequentassi il liceo classico Canova a Treviso. Prima di andare a scuola dovevo farmi un'ora di stalla e quando arrivavo in classe talvolta portavo un po' di odore rustico. Da bambino andavo a scuola con in tasca una patata americana come merendina. Per ripararmi dalla pioggia mia madre usava i sacchi di plastica della Montedison per i concimi chimici. Ho anche lavorato in fabbrica, ho fatto il muratore. Che sia finito poi a fare storia dell'alimentazione all'università è una sorta di chiusura del cerchio».
Come si formano i nuovi contadini?
«Per fare i contadini bisogna avere la terra, investire, costa fatica e non solo. Oggi esistono imprenditori agricoli che lavorano per le filiere della grande distribuzione. Con sette ettari di prosecco vivi, con sette ettari di campagna non vivi. Oggi se vuoi comprare un ettaro nella zona del prosecco ci vuole quasi un milione di euro! La formazione è il grande problema. Io chiudo la mia carriera insegnando a un serale di adulti che vogliono diventare cuochi. Li porto a calpestare i campi, a frequentare le stalle. L'istituzione 12 anni fa all'università di Padova di una laurea in cultura della gastronomia aveva proprio questo senso. E l'abbiamo fatto molto prima della facoltà del Gusto di Slow Food. Al master della cucina italiana a Vicenza mi sono presentato alla prima lezione con un vaso di vetro pieno di terra, era bene che partissero da lì. Ma basta anche una scatoletta di carne Simmenthal perché dentro c'è tutta la storia: il sogno della carne, il passaggio dal crudo al cotto, l'evoluzione dell'industria, dell'invenzione di inscatolare. Poi c'è l'industria editoriale, almeno 1500 titoli all'anno di ricettari, cibi, vini».
A che punto è oggi la cucina veneta?
«È sempre in bilico tra il recupero della tradizione rivendicata e l'innovazione. I veri piatti della cucina veneta sono quelli della festa contadina che celebrava mietitura, vendemmia, matrimoni. Per il resto erano solo zuppe di ortaggi e legumi, polenta e il maiale quando c'era; una cucina fatta di cibi in cui puoi tociare, intingere».
Perché Oliviero Toscani continua a chiamare i veneti ubriaconi?
«Al di là delle provocazioni, è vero che il vino e le osterie, e non solo per i veneti, hanno rappresentato un ruolo importante anche di aggregazione. I consumi di vino nel Veneto erano altissimi, un litro al giorno; oggi si consumano in media 30 litri l'anno. Era un sogno bere del vino che non fosse il vinello, il vin picolo che era fatto con l'aggiunta di acqua. Ma Toscani ha ragione quando parla della facilità di bere certi vini ruffiani dei quali i giovani fanno un consumo alto e preoccupante».
C'è un pranzo tradizionale di Natale?
«L'antipasto rigorosamente con salumi, soppressa in primis, accompagnati con croccante giardiniera e pan biscotto o bussolà. Baccalà mantecato, servito spalmato su crostini. Il primo piatto prevede la presenza del brodo di cappone e la pasta fresca con ragù d'anatra, spesso anche il risotto, preparato con verdure di stagione, radicchio in testa, e nell'area del Delta con l'anguilla. Il secondo vede la carne trionfare: cappone, faraona o tacchinella arrostite e farcite con castagne, funghi e radicchio, gran vassoio di lesso accompagnato da salse importanti come il cren o la salsa pearà».
E dolci e vini?

«Per dolce la pinza e il tiramisù, il veronese pandoro e il suo antenato Nadalin. Mandorlato di Cologna Veneta per chiudere in croccantezza e bagigi per introdurre la tombola. I vini tutti rigorosamente locali: amarone, raboso e cartizze. Anche prosecco, naturalmente inglesi permettendo».
Edoardo Pittalis
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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