Place Dauphine è uno dei luoghi più caratteristici di Parigi. Nel bel

Sabato 17 Febbraio 2018
Place Dauphine è uno dei luoghi più caratteristici di Parigi. Nel bel mezzo dell'Ile de la cité, è una sorta di triangolo alberato dove si raccolgono avvocati in toga (lì è l'ingresso della Corte de Cassazione), innamorati romantici e inveterati giocatori di bocce. È inquadrata da palazzine vecchie e nuove, e con un po' di fantasia si può individuare quella dove Anatole France, nel suo Les Dieux ont soif, collocò l'abitazione del fanatico e sentimentale rivoluzionario Evariste Gamelin. La piazza si stringe, verso la Senna, in due piccoli edifici di elegante stile Mansart, le cui finestre si affacciano sul Pont Neuf, davanti alla statua del più amato dei re francesi, orgogliosamente in sella. In uno di questi blocchi si trova un delizioso bistrot, la Taverne Henry IV, specializzato in formaggi, charcuterie e vini d'annata. Entrando, a sinistra, c'è un tavolino con una placca che ricorda il più illustre degli avventori: qui si sedevano infatti Georges Simenon e la sua creatura, il Commissario Maigret.
Georges Simenon era nato a Liegi nel 1903, e nella sua esistenza avventurosa, scappando dalle donne, dall'accusa di collaborazionismo e probabilmente dalle sue fobìe, riuscì a vivere tra gli Stati Uniti e l'Europa, producendo più di 450 romanzi e novelle: una prolificità equivalente alle sue energie sessuali, visto che vantava rapporti pregressi con circa diecimila donne, la più parte prostitute. Forse furono questi esborsi eccessivi che lo indussero a scrivere anche ottanta pagine al giorno. Di queste, le più famose, e le più redditizie, furono quelle dedicate al Commissario Maigret, gagliardo funzionario di provincia che arriva all'Ufficio più delicato della polizia parigina: la brigata criminale, con sede al 36 Quai des Orfèvres, a pochi metri dalla Conciergerie che vide Maria Antonietta e tante illustri teste lacrimare in catene prima di cadere sotto la ghigliottina. In tutto, sono 75 romanzi e 28 racconti, ambientati essenzialmente nei quartieri bassi della capitale, o nella quieta ma inquietante provincia, dove tra beghine ipocrite e borghesotti viziosi dilagano delitti e furfanterie. Maigret vi si destreggia con placida tenacia, e tra un uovo sodo gustato al banco e un calvados di rinforzo arriva immancabilmente alla soluzione.
LE QUALITÀ
Noi non dobbiamo cercare in questo roccioso investigatore le qualità straordinarie dei suoi celebri colleghi. Maigret non possiede il magico intuito del tenente Colombo, né la ferrea logica deduttiva di Sherlock Holmes; le sue cellule grigie ronzano più lentamente di quelle di Hercule Poirot, e i suoi gusti sono assai meno raffinati di quelli di Philo Vance. Non è seguito da un inetto biografo come il dottor Watson o il capitano Hastings; è invece circondato da fedeli ispettori di polizia, qualcuno brillante quanto lui, qualche altro più tonto. Né il loro creatore pretende di affascinarci con la complessità dell'intrigo e l'astuzia luciferina del colpevole. Simenon non costruisce puzzle ingegnosi, e non ci affida il compito di risolverli in contemporanea con il suo protagonista. Raramente ci fornisce gli indizi che avrebbero dovuto orientarci verso la soluzione dell'enigma: lo scrittore ha giocato con noi a carte coperte, ed in un certo senso delude le nostre aspirazioni di partecipi investigatori: rileggendo il romanzo, ci accorgiamo che l'assassino avrebbe potuto benissimo essere chiunque. Non sarebbe cambiato nulla, perché la trama, in definitiva, era un elemento quasi secondario.
Questo perché il fascino di Maigret, e delle sue imprese, non risiede nel confronto tra due intelligenze e nell'inevitabile trionfo della meglio dotata. Risiede nella ricostruzione meticolosa di un'atmosfera particolare, tra quelle brume parigine che hanno ispirato le malinconie di Baudelaire, le canzoni e le poesie di Brel e di Brassens; risiede nel gusto del pot-au-feu cucinato dalla moglie paziente, nella fumosa ambiguità dei bistrot di Ménilmontant, nei vicoli oscuri del Marais tra prostitute sfatte e avidi bottegai, nell'apparente sonnolenza dei villaggi bretoni e normanni, dove tra invidie sociali e conflitti famigliari maturano la tragedia e il delitto. E infine risiede nella solida quotidianità di questo leale funzionario con cappello e pipa, che scava nelle menti e nei cuori di un'umanità quasi sempre sconfitta e dolente, dove la sconcezza dei costumi e persino la brutalità dell'omicidio è il frutto quasi inevitabile di un destino sfortunato. Maigret studia i caratteri più ancora che il crimine, e il lettore trae l'impressione che quest'ultimo sia solo il pretesto per dipingere la nostra condizione di presenza provvisoria, gravata da piaghe che trovano consolazione soltanto davanti a una tavola imbandita nella serenità familiare.
GLI INTERPRETI
Maigret è stato portato sugli schermi da una dozzina di grandi attori, da Charles Laugthon a Bruno Cremer; in Italia è stato impersonato da Gino Cervi, in una serie che ha raggiunto vette di quasi venti milioni di spettatori ad episodio, con il plauso entusiasta dello stesso Simenon. Cervi è stato una delle nostre voci più incantevoli, e il suo doppiaggio di Laurence Olivier nel Riccardo III di Shakespeare supera quasi l'elegante dizione del grande attore inglese. E tutti ricordano la sua straordinaria interpretazione di Peppone, quando converte un trinariciuto comizio stalinista in un commovente inno alla Patria al suono della canzone del Piave. Da un attore così versatile non ci si poteva attendere di meno, e il suo Maigret, tenuto conto dei limitati mezzi di allora, è forse il più riuscito di tutte le altre serie. Tuttavia, e a malincuore, dobbiamo inchinarci riverenti davanti all'interpretazione di Jean Gabin, sulla cui faccia marmorea il personaggio sembra scolpito. Gabin ha la rude immobilità del consumato poliziotto, appena temperata dal gesticolare delle braccia, dalle alzate di spalle, e dallo sbuffare indolente che costituiscono il tratto del disincantato parigino, del burbero paesano normanno e del placido marinaio bretone. I suoi biografi ci assicurano che dovette sforzarsi a fumare la pipa: un sacrificio che comunque affrontò volentieri per immedesimarsi meglio nel personaggio. Un'impresa riuscita così bene che Simenon disse: «Maigret è Gabin». Al che un critico gli rispose: «Gabin è troppo Gabin per essere Maigret!» Glielo perdoniamo.
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