LA STORIA
Il folle volo si compie in un mattino di sole, il 9 agosto 1918, quando

Giovedì 12 Luglio 2018
LA STORIA
Il folle volo si compie in un mattino di sole, il 9 agosto 1918, quando ormai tutto sembrava compromesso. San Pelagio-Vienna-San Pelagio, resterà invece la tratta incisa per sempre nella storia dall'ardire del poeta Gabriele D'Annunzio e di sette aviatori dello Squadrone Serenissima. Che al terzo tentativo, all'ultimo respiro possibile concesso da un governo in guerra - eccitato e, allo stesso tempo, impaurito dall'impresa -, riusciranno a staccarsi da terra, a sorvolare le Alpi, volantinare una Vienna esterrefatta (e le foto originali di Michelangelo Zigiotti sono lì a dimostrarlo) e tornare al campo di volo alle spalle dei Colli Euganei, dopo aver visto Trieste e Venezia anche loro d'alto.
TUTTO IN SEI ORE
Poco più di sei ore in tutto per rendere reale l'impensabile. Perché la storia del volo su Vienna è la storia di un volo che stava per saltare. 9 agosto 1918, ore 2 di notte. D'Annunzio, ospite a Padova della contessa Cia Giusti del Giardino, si sveglia. Sa che quella è l'ora dell'impresa. Chiama la contessa, si fa benedire e fa rotta verso Terradura di Carrara San Giorgio, al campo di volo del castello di San Pelagio, dal 1700 di proprietà della famiglia Zaborra. Lì, sul terreno diventato la pista dei bombardieri Caproni dopo la rotta di Caporetto (un po' per le condizioni favorevoli dei venti, un po' per quelle geografiche nel cuore della piana padana), lo aspettano i suoi uomini. Sono pronti a volare ma sanno che quello sarà l'ultimo tentativo. Un'inusuale nebbia li aveva fermati il 2 agosto; il vento forte era stato il loro ostacolo il giorno prima, l'8 agosto, quando la flotta, ormai in territorio austriaco, era stata costretta a ritornare sui propri passi. D'Annunzio sa che non c'è più tempo, che il governo italiano non concederà un quarto tentativo.
I presagi, nemmeno quelli, sono dei migliori: l'unico aereo biposto che doveva trasportare il Vate e il suo pilota si danneggia in una prova di volo qualche giorno prima. È l'ingegnere Giuseppe Brezzi, fatto arrivare apposta da Milano su preghiera del poeta-combattente, a modificare il serbatoio del carburante a forma di sedile di un aereo monoposto Ansaldo Sva, permettendo a D'Annunzio che non sapeva pilotare aerei di essere trasportato. Quel sedile, figlio di una modifica del serbatoio, il Vate lo chiamerà nelle sue memorie la seggiola incendiaria per via del calore dovuto alla combustione.
IL GIURAMENTO DEL VATE
È con queste premesse che D'Annunzio, a cui era stato ordinato di non proseguire se nella rotta lo stormo si fosse ridotto a meno di cinque Sva, chiama nell'hangar i piloti più fidati: Natale Palli, Antonio Locatelli, Gino Allegri (il suo discepolo preferito, che battezzerà Fra Ginepro e per cui decanterà pochi mesi dopo un'orazione funebre nell'attuale oratorio della Madonna Nera di Montegrotto Terme, ndr), Aldo Finzi, Piero Massoni, Giuseppe Sarti, Ludovico Censi e Giordano Granzarolo, legandoli ad un solenne giuramento: Se non arriverò su Vienna, io non tornerò indietro. Se non arriverete su Vienna, voi non tornerete indietro. Questo è il mio comando. Questo è il vostro giuramento. I motori sono in moto. Bisogna andare. Ma io vi assicuro che arriveremo. Anche attraverso l'inferno. Alalà! sono le parole del poeta. Giurano. Alle 5.30 partono in undici.
A Vienna arriveranno solo sette per via di guasti meccanici che fermano quattro Sva. Attorno a mezzogiorno gli aviatori del folle volo sono di nuovo a San Pelagio. Ecco il luogo altissimo, ecco il luogo profondissimo dove io abito, ecco il luogo segreto, mistico e ardente, dove io respiro, scrive D'Annunzio di ritorno dall'impresa. Consumata nel guardarsi attorno e nel riempire taccuini di pensieri celebrativi di un gesto che resterà nella storia. Un gesto così grande omaggiato dal Vate con la fusione, ordinata al proprio orafo, di nove braccialetti in argento da regalare ai compagni d'impresa e uno in oro, da donare alla contessa Giusti del Giardino.
IL MOTTO DELLA SIBILLA
Ibis redibis, citando le parole della Sibilla sul destino di un soldato in battaglia, recita il fronte del bracciale; Cieli di Vienna, 9 agosto 1918, Gabriele D'Annunzio è l'iscrizione forgiata sul retro. Un volo, quello su Vienna, progettato circa un anno prima, durante il periodo trascorso da D'Annunzio nelle stanze del castello che oggi ospita il Museo del Volo, restaurato con un'importante iniezione di tecnologia e multimedialità proprio in occasione dei festeggiamenti del centenario del volo, ad agosto. Perché è passeggiando tra i giardini e il labirinto che ora portano i nomi di alcune sue opere letterarie, che D'Annunzio si concentra sull'impresa senza alcuna distrazione.
LE CASSE DI CHAMPAGNE
Unica concessione, le casse di champagne che il Vate si fa arrivare nei suoi appartamenti, ancora conservati alla perfezione, con l'aggiunta del letto usato nella Casetta rossa a Venezia su cui è stato composto il Notturno. Null'altro. San Pelagio infatti era il luogo sacro di altre imprese dannunziane come la rotta verso Oriente (C'è qui qualcuno che si ricordi di quella sera grigia, nel campo di San Pelagio, quando per la prima volta, dissipando col gesto il fumo delle sigarette delle malinconie, io proposi la rotta per l'Estremo Oriente? Dissi a Natale Palli: Bisogna che andiamo a Tokyo, scrive) e l'invasione di Fiume. Ma soprattutto di un volo che stava per saltare. Un viaggio così impensabile da far scrivere, giorni dopo, ai quotidiani viennesi Dove sono i nostri D'Annunzio?.
Nicola Munaro
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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