L'INTERVISTA
Si muove cercando di non far danni nel salotto pieno di piccoli

Lunedì 21 Gennaio 2019
L'INTERVISTA
Si muove cercando di non far danni nel salotto pieno di piccoli oggetti fragili. L'uomo è alto e massiccio, cerca una fotografia e chiama la sua compagna: Ivana dove l'ho messa?. Mostra la copia della medaglia d'oro vinta alle Olimpiadi di Roma nel 1960, quella originale gli è stata rubata. Poi stacca dalle pareti due poesie di ammiratrici e le recita a memoria: Affiora la speranza sul tuo volto leale,/ gli occhi hanno fiamme di fierezza che vale. E ancora: Là sul ring sei rinato/ un grande boxeur;/ l'inno ti saluta/ e va alto in ciel.
Franco De Piccoli abita a Campalto, sulla strada dell'aeroporto, ha appena compiuto 81 anni, conserva i messaggi di auguri, il primo è quello del presidente del Coni Giovanni Malagò: «Mi invitano e spesso rinuncio perché alla sera sono stanco. Sono felice, ma ogni cosa ha il suo tempo». Ha fatto anche l'attore nel 1979 per un film-tv, Quasi due metri, tratto da un racconto di Scerbanenco: «Interpretavo un gigante dal cuore tenero che uccide per amore». La sua storia è stata raccontata in un bel libro del giornalista mestrino Valter Esposito intitolato Storia di una medaglia d'oro (Il Prato Editore).
Sembrava destinato a rinnovare il mito di Primo Carnera, ha abbandonato la boxe a 28 anni dopo un ko, lui che aveva quasi sempre vinto per fuori combattimento. «C'è stato un incontro dopo Natale, con un americano non straordinario; avevo la febbre alta, mi hanno costretto a combattere perché dicevano che c'erano contratti da onorare. Mi sono svegliato nello spogliatoio e ho chiesto come era andata. Dalle facce ho capito tutto, anche che la mia carriera era finita. Ho smesso quando ero decimo nella classifica mondiale dei massimi guidata da Sonny Liston e dietro gente come Patterson e l'emergente Cassius Clay. Quando prendi un pugno alla sprovvista da un peso massimo ne senti le conseguenze».
Tutto è partito da Mestre?
«Sono nato a Mestre, mio padre Pietro era un friulano di Latisana che si era stancato di lavorare la terra e ha trovato un posto alla Monteponi-Montevecchio vicino alla Breda. Poi quando lui si è ammalato per gli acidi respirati, io ho preso il suo posto in fabbrica; è morto ancora giovane. Ero un bambino vivacissimo con poca voglia di andare a scuola, un bandito mi chiamava mamma Uliana che era una specie di maresciallo dei carabinieri. Mi sono comprato di nascosto una bicicletta da corsa, ma ero troppo grosso per le salite: una volta sul Pordoi sono sceso di sella e sono passato a piedi, è dura portarsi appresso ottanta chili in montagna.. Quando in allenamento sono caduto, mia madre mi ha riempito di botte. Ho provato col calcio, giocavo da mediano sinistro nella squadra del Campalto, dopo un calcione mio padre anziché curarmi mi ha bastonato».
Non rimaneva che il pugilato?
«Ero innamorato del ballo, ero forte anche nel rock and roll. Andavo a ballare al Mokambo verso Oriago, da Bagiggi a Spinea o al Cigno d'oro di Carpenendo. Il Bagiggi nei giorni feriali si trasformava in palestra di boxe, il padrone mi propone di fare pugilato. Gli rispondo che abito a Campalto e lavoro in una fonderia a Ballò e, soprattutto, che mia madre non voleva che facessi sport. Il presidente della società, dottor Mario Dan, mi ha comprato un Paglianti, un motorino a miscela col quale facevo più in fretta a spostarmi dal lavoro all'allenamento. Riprendevo la bicicletta per tornare a casa».
Come è stata la prima volta sul ring?
«Sono cresciuto presto, a 18 anni ero già alto come sono ora, quasi un metro e novanta, e non avevo problemi di peso. Sono un mancino naturale, mi ha impostato il maestro Arturo Paoletti, di Mira, che era stato campione europeo dei gallo. Mi ha fatto salire per la prima volta sul ring in occasione dei campionati regionali con i fratelli veneziani Plinio e Bruno Scarabellin e il padovano Federico Friso, diventati anche campioni nazionali dei massimi. È il 6 gennaio 1955, una domenica, contro un pugile di Susegana: gli ho mollato un sinistro e l'ho appeso sulle corde, è finita subito e me ne sono andato a ballare. L'indomani sul Gazzettino c'era un titolo su di me, appena ha letto mia madre mi ha dato uno schiaffo. L'anno dopo ero già secondo ai campionati italiani».
Cosa ha cambiato la sua vita?
«Nel 1960 ero soldato, artiglieria corazzata. Mi hanno mandato ai mondiali militari dove c'erano grandi campioni che si preparavano per le Olimpiadi di Roma. Incontro il favorito americano Percy Price e metto a segno il più bel fuori combattimento della mia carriera: l'ho colpito al fegato e ha gridato come Tarzan. E' caduto sopra il tavolo della giuria dove era seduto un mito: il tedesco Max Bauer che aveva preso il titolo mondiale a Primo Carnera. A darmi la conferma che sarei stato della squadra olimpica è stato lo stesso tecnico Natalino Rea».
E' l'agosto del 1960 quando De Piccoli arriva nella Roma della Dolce vita, l'Italia è in pieno boom economico. Le Olimpiadi sono lo specchio di un'euforia da benessere che passa per Carosello, le catene di montaggio, i primi supermercati e raggiunge lo sport. Il Papa buono benedice gli atleti. La boxe italiana non ha mai vinto tanto come a Roma
«A Roma eravamo una squadra fortissima: Benvenuti, Musso ed io medaglia d'oro; Lopopolo, Bossi e Zampieri medaglia d'argento; Saraudi bronzo. Su dieci categorie, in sette siamo andati a medaglia. Con Nino Benvenuti abbiamo vissuto insieme, eravamo nella stessa stanza in ritiro collegiale. Nino era un predestinato. A Roma ho vinto il primo incontro col belga Venneman per abbandono e il secondo ai punti col russo Abramov che era una leggenda. Batto ai punti il ceco Nemec ed eccomi in finale, la notte del 5 settembre al Palazzo dello Sport contro il sudafricano Bekker: è durato poco, dopo 40 secondi l'ho preso in pieno e l'ho sbattuto contro le corde. Sono diventato campione olimpico: un sogno, ventimila persone che mi acclamavano, il tutto davanti alla televisione. L'indomani ho dovuto chiudermi in albergo per la folla. I romani mi hanno sempre voluto bene, da professionista mi chiamavano l'ottavo re di Roma, potevo andare a pranzo e a dormire gratis. Quando ho perso il mio primo incontro a Roma la gente si è messa a piangere, un silenzio di tomba, come per dire: come può essere successo?».
Cosa è accaduto dopo quel 5 settembre 1960?
«Quando sono rientrato in caserma a Orvieto il colonnello ha organizzato una festa che non finiva più. Ho chiesto un permesso per tornare a casa, ero caporal maggiore autorizzato a viaggiare su treni direttissimi in borghese. In treno tutti mi salutavano, mi abbracciavano. Mi hanno fatto scendere a Padova e sono venuti a prendermi con una Buick sulla quale abbiamo percorso l'autostrada Padova-Mestre appena inaugurata. Quattro vigili urbani motociclisti ci hanno scortato fino a Mestre: in Piazza Ferretto c'erano migliaia di persone e avevano allestito un ring al centro».
Pochi mesi dopo era già professionista
«Sono passato professionista nel gennaio del 1961, ho smesso forse nel momento più bello. Su 41 incontri ne avevo vinto 37 e 29 volte per ko. Penso di essere stato male amministrato, dovevo combattere per il titolo europeo. A Mestre ho combattuto al campo sportivo Baracca, non ci stava neanche la gente dentro. A 28 anni ho detto basta, che non valeva la pena di rischiare, di fare altre brutte figure. Avevo tutto a portata di mano, ma dentro si era spezzato qualcosa».
Edoardo Pittalis
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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