L'INTERVISTA
Le nostre sono vite potenziali che sarebbero piaciute a Giuseppe

Domenica 17 Giugno 2018
L'INTERVISTA
Le nostre sono vite potenziali che sarebbero piaciute a Giuseppe Berto. Esistenze confinate in un «paesaggio senza passato e senza futuro», ostaggio di «felicità inseguita e mai definitivamente raggiunta». Vite potenziali (Mondadori) che lanciano il 38enne Francesco Targhetta sul podio del Premio Berto, edizione numero 26, applaudito ieri sera nel gala conclusivo a Capo Vaticano, dove l'autore de Il male oscuro fu sepolto 40 anni fa. Nessuna ode alla locomotiva d'Italia, all'operoso Nordest che sogna il successo e si spacca la schiena annegando la disperazione in litri di spritz nel potente debutto nella narrativa di Targhetta, entrato anche nella cinquina finalista del Campiello, ma «il resoconto di un'epoca dove tutto è permanentemente inconcreto e dove ogni esperienza umana diventa una lotta tra avversari evanescenti», come sottolinea la giuria nelle sue motivazioni. Insegnante di lettere e di latino, «finalmente di ruolo» al liceo Flaminio di Vittorio Veneto, Targhetta afferra il Berto per la seconda volta: nel 1999, da studente dell'ultimo anno di liceo, si era imposto tra i Giovani della sezione poesia. Ora la consacrazione «da senior», e nella prosa, mondo nuovo per un poeta che si era già fatto notare col romanzo in versi Perciò veniamo bene nelle fotografie del 2012.
Lo sguardo sul Veneto che fa da sfondo ai suoi personaggi è impietoso. Emblema di un intero mondo.
«Dal Veneto sono arrivati i più grandi romanzi degli ultimi anni, penso a Words di Vitaliano Trevisan e Cartongesso di Maino, credo abbiano pochi rivali in Italia, eppure fanno fatica a superare i confini. Come se non fossimo rappresentativi di un realtà più ampia. Per me non è così».
Cosa vede?
«Il paesaggio che rappresento nel romanzo è esattamente lo stesso che si trova nelle periferie di qualsiasi città del centro-nord italiano: devastato, popolato di rotonde, di centri industriali, di fabbriche abbandonate, di orribili chiese in cemento, un paesaggio omologato. Zanzotto parlava della circolarità tra uomo e paesaggio: noi siamo il paesaggio, omologati in un paesaggio omologato».
Brutto paesaggio, come in Dogman di Garrone?
«Ho sentito molto vicino il film, quel paesaggio è ovunque, sia Castel Volturno o Trebaseleghe o Volpago, poco cambia. Eppure questo sembra riguardare altri e non noi. Non me lo spiego, forse siamo antipatici».
L'immaginario veneto non aiuta.
«Il resto dell'Italia sembra non vedere che dietro lo stereotipo, che per altro esiste, c'è anche altro. Una rabbia che nasce dalla ribellione a questo modo di essere e di sentire».
Un modo di essere fatto di accelerazione, tecnologia, ipercompetitività come nel romanzo?
«Devi essere tutto e velocemente. Un paradigma che si riflette nei giovani ma anche nei cinquantenni. Stiamo cambiando il modo di stare al mondo».
Cioé?
«Stiamo qui ora, ma le vite potenziali sono altre. La felicità non è possedere qualcosa di solido e sicuro, ma l'idea di poter far più cose possibili verso nuove direzioni. Entri in una centrifuga che toglie il fiato. Una vita senza centro e direzione, ansiogena».
I ragazzi, gli studenti, come li vede? Com'è insegnare oggi?
«Sono fortunato, insegno al liceo, e con gli studenti mi trovo benissimo».
Schiavi del cellulare?
«Quella è la realtà rappresentativa dei ragazzi. Il telefonino si sta trasformando in un ulteriore divario di classe. Ho l'impressione che questo strumento venga domato solo da chi ha la consapevolezza dei rischi. Il che però nasce in certi ambienti. Vedo ragazzi consapevoli già a 16 anni, il telefono non influenza il loro modo di stare al mondo. Altri che non hanno questo tipo di educazione non ce la fanno».
Difficile sfuggire?
«Impossibile sottrarsi. Il romanzo non dà riposte. Forse non ce ne sono. Al mondo si deve stare così, prendere o lasciare e lasciare significa crepare o entrare nelle dimensioni della malattia. Oppure ci devi stare dentro».
Ed essere felice.
«Appunto, perché se non sei felice sembra sia colpa tua. Non è responsabilità del mondo che abiti e delle strutture che ci siamo autoimposti. Un circolo vizioso. Eco parlava degli apocalittici e integrati adesso l'impressione è che tutti, anche quelli che vedono struttura, siano comunque chiamati a integrarsi».
Chiara Pavan
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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