L'INTERVISTA
«La nostra spiaggia era il Piave, siamo cinque fratelli e il

Lunedì 17 Dicembre 2018
L'INTERVISTA
«La nostra spiaggia era il Piave, siamo cinque fratelli e il mare l'abbiamo visto da grandi. È vero, ogni estate c'era qualche ragazzino che annegava e tutti i genitori cercavano di impedirci di andare al fiume, ma poi riprendevamo a nuotare nel Piave che scorre attaccato alla nostra parrocchia. Siamo nati a Riva Secca un borgo di Crocetta del Montello adagiato sulla riva e siamo rimasti legati al fiume, noi abbiamo le Grave, possiamo camminare per chilometri con le montagne a nord e questo silenzio assoluto. Il Piave qui batte contro il Montello, fa un'enorme ansa silenziosa, serena. Il Piave è anche una lingua comune: da Belluno a Jesolo i rivieraschi parlano più o meno la stessa lingua, un dialetto crudo».
Silvio Antiga, 73 anni, a Crocetta è nato e con i fratelli ha creato qui una delle grandi realtà imprenditoriali del Veneto, la Grafiche Antiga che ha appena festeggiato il mezzo secolo di vita. Un fatturato da 36 milioni, 200 dipendenti, uno stabilimento che si estende su 25 mila metri quadrati, ogni anno 6500 tonnellate di carta utilizzate, diecimila commesse gestite, duecento libri stampati. E anche un Museo del carattere e del design tipografico a Cornuda, e la Fondazione Tipoteca, la sola esistente in Italia: «il punto d'incontro tra due mondi, quello della tipografia classica e quello digitale».
I cinque fratelli Antiga sono tutti di Crocetta: Silvio, il fondatore e presidente, Franco 72 anni, Mario 70, Carlo 68, Maria Antonietta 64 anni. «Siamo stati fortunati, i genitori ci hanno trasmesso una saldatura familiare straordinaria che ci ha consentito cinquant'anni dopo di stare ancora insieme». Superato anche il problema del ricambio generazionale, sei giovani Antiga sono già in azienda.
Tutto è incominciato sul Piave?
«Sì, ma nei nostri giochi c'erano anche il calcio e la musica. Io ero negato perfino a fare il guardalinee, Mario invece era bravo e giocava nella squadra del Crocetta, vecchia maglia verde di lana, un buon mediano di spinta come si diceva allora. Nostro padre era clarino della banda comunale e ci ha spinto verso la musica: io suonavo la tromba, Franco la chitarra basso, Mario la batteria, Carlo la chitarra. Abbiamo formato un complesso, con l'aggiunta di un cantante e chitarrista, l'avvocato Adolfo Chiaventone. Era il tempo dei Beatles e dei Rolling Stones, a noi piacevano di più gli ultimi, ma facevamo anche i classici di quegli Anni Sessanta, da Tenco a Endrigo, rock e lento. Suonavamo per la biblioteca del paese, per la fame nel mondo, per gli amici che si sposavano. Ci pagavano a pane e salame. Avevo la passione per l'archeologia e sono tra i promotori del museo locale. Quando hanno scavato a Bigolino, nel torrente sono venuti alla luce i resti di un mammuth e il nostro gruppo ha avuto l'incarico di fare la guardia perché nessuno si avvicinasse e portasse via i reperti. Hanno affidato tutto al piccolo museo ed è ancora qui».
Come era Crocetta in quegli anni?
«La nostra era una famiglia di operai, negli Anni '50 questa era terra di emigrazione, terra dura. Tre fratelli di mio padre Celio, operaio in una conceria, erano emigrati nelle Americhe e così pure alcuni fratelli di mamma Guglielmina. I miei compagni di scuola andavano e venivano come stagionali dalla Svizzera e dalla Germania. Vedo che oggi facciamo fatica a ricordare questo passato comune di emigrati! Crocetta era senza fabbriche, stava per chiudere il Canapificio Veneto fondato nel 1883: aveva 3000 dipendenti che venivano dai comuni vicini. Noi siamo cresciti da bambini curiosi, poveri come tanti altri, per noi esisteva San Nicolò, era quello il culto prenatalizio. Mamma ci faceva mettere un po' di fieno sulla finestra per il 6 dicembre, serviva per l'asino del santo. E la mattina non trovavi più il fieno, ma due o tre caramelle. Ci bastavano per capire che era festa».
Quando è nata la prima tipografia della famiglia Antiga?
«L'unica risorsa era il lavoro e nel 1960 vado a lavorare in una grande stamperia di Castelfranco che adesso non c'è più. Otto anni dopo tutti insieme, noi fratelli, decidiamo di fondare una tipografia. È l'8 agosto del 1968 quando con Franco andiamo a Padova a comprare attrezzature usate per la stampa, due banconi di caratteri e un tagliacarte verde chiaro. Papà ha ipotecato la casa di famiglia per avallare il prestito. La tipografia era a casa, la piccola pedalina all'interno del salotto: abbiamo spostato il divano per far posto alla macchina della stampa».
Era il tempo del boom delle piccole imprese?
«Ci hanno dato una spinta i mobilifici che avevano come forma di pubblicità il catalogo che è sempre stato un lavoro delicato. Molte tipografie lo consideravano un rischio e rifiutavano, noi l'abbiamo presa come una sfida: c'erano decine di mobilifici nel Quartiere del Piave, alcuni ci sono ancora, seppure ridimensionati. Ci arrivavano ordinazioni anche dal Livenza e dalla Bassa Pordenonese. Dopo qualche mese abbiamo dovuto assumere garzoni di bottega ai quali insegnare il lavoro e sono rimasti con noi per mezzo secolo, alcuni di quei ragazzi sono appena andati in pensione. Poi c'erano gli ordinativi delle fabbriche di cucine con centinaia di dipendenti, metà di quelle aziende ha chiuso».
In cinquant'anni avete cambiato sede un paio di volte
«Abbiamo lasciato casa nel 1975 e siamo andati nella zona del Canapificio, dove ora c'è la Tipoteca. Nel 1992 allargati ancora, di fianco: gli edifici facevano sempre parte del Canapificio. Nel 2007 siamo arrivati nella nuova sede che è dove c'era l'ex Conti, industrie metalmeccaniche, mobili per ospedali e comunità. L'intera zona sul Piave oggi si è impoverita, troppi centri commerciali, molte imprese delocalizzate. Fino a dieci anni fa c'erano i negozi che tenevano vivi i paesi, oggi tutte queste botteghe dal sarto al casoin non ci sono più. Siamo nella zona che era la capitale mondiale della scarpa sportiva, ma adesso la produzione delle scarpe si fa in Romania o in India!».
Oggi in cosa consiste il vostro lavoro?
«Stampiamo soprattutto libri fotografici, cataloghi di mostre, storia dell'arte. Abbiamo appena pubblicato una monografia in sette volumi della storia dell'Accademia di Belle Arti di Venezia. Il calendario Pirelli lo abbiamo stampato per sette anni ed è un motivo di prestigio per la qualità che esige. Lavoriamo per il mondo della moda, un settore esigente. Per accompagnare le loro creazioni vogliono prodotti stampati di alta qualità, vogliono cose palpabili, visibili, di carta».
Come siete arrivati al museo della stampa?
«È scattato quando ci siamo accorti che le tecnologie stavano facendo scomparire gli strumenti della tipografia tradizionale, il nostro mestiere. Dopo 500 anni in cui si è lavorato quasi con gli stessi caratteri, in poco tempo è stato accantonato tutto: i caratteri di legno bruciati, quelli di piombo fusi per farne pallini da caccia, le macchine portate in fonderia per farne ghisa! Abbiamo mandato una lettera a tutti i tipografi italiani: se avete materiale che non vi serve veniamo a prenderlo, lo compriamo. Lo scopo non era quello di fare un museo, ma di salvare un mondo che scompariva, siamo in grado di stampare qualsiasi cosa con i materiali e le macchine tradizionali. Una tipografia come La Musica Moderna di Milano fondata nel 1930 e specializzata in edizioni musicali del Novecento, ci ha donato il suo archivio, quasi 50 mila spartiti. Una cosa simile non esiste in Europa, è la storia della musica popolare in Italia, da Caruso a Orietta Berti».
Edoardo Pittalis
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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