L'INTERVISTA
L'hanno chiamato il Cuccia veneto e non soltanto perché ha

Lunedì 10 Dicembre 2018
L'INTERVISTA
L'hanno chiamato il Cuccia veneto e non soltanto perché ha trascorso mezzo secolo al vertice di una delle banche più importanti della regione, che è arrivata, prima del Duemila, ad essere la sesta in Italia per i risparmi raccolti.
A 90 anni appena compiuti Antonio Finotti, polesano di Loreo, si è alzato dalla poltrona di Presidente della Fondazione Cariparo per sedersi su quella appena creata di Presidente Emerito.
In banca era entrato per la prima volta un lunedì di novembre del 1947. A conti fatti dal 1947 a oggi ho fatto più di settant'anni tra banca e Fondazione.
Tre figli, cinque nipoti e due pronipoti, una laurea in legge ad honorem e una serie di cittadinanze onorarie, Finotti ogni mattina è nel suo ufficio padovano in piazza Duomo, nell'antico palazzo del Monte di Pietà che è la sede della Fondazione, tra la cattedrale e il gioiello del Battistero interamente affrescato. Il Monte di Pietà fu istituito alla fine del Quattrocento per combattere la piaga dell'usura.
Come ci si sente a 90 anni sulla poltrona di presidente emerito?
«Francamente, forse è una presunzione, io al momento gli anni non li sento. E credo alle coincidenze: ho compiuto gli anni a novembre e proprio di novembre, il 17, ho incominciato a lavorare. Da ragioniere appena diplomato, non ancora maggiorenne, sono entrato alla Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, nella sede di Adria. Nel 1951 il primo ufficio da dirigere, anche se mi fa un po' ridere questa parola: eravamo in due! Ero a Taglio del Po nell'anno dell'alluvione che arrivò proprio di novembre. Il paese era sotto acqua quando fu raggiunto dall'onda di piena, sembrava di essere al fronte. È stata una palestra eccezionale per capire i problemi e le conseguenze dell'alluvione e per aiutare la gente. La popolazione era spaventata: portava via i depositi dalle banche e pensava ad andarsene. La provincia intera era atterrita, è seguita l'emigrazione: più di centomila persone se ne sono andate in pochi mesi, quasi la metà degli abitanti. Abbiamo cercato di agevolare agricoltori, piccoli artigiani che avevano bisogno di tutto. Tolta subito l'acqua, che era il primo problema, la situazione si è normalizzata e la reazione è stata eccezionale».
Come era il Polesine della sua infanzia?
«Allora la realtà era molto diversa, c'era la grande proprietà terriera in mano alle famiglie veneziane presenti da secoli. Era una provincia che viveva di agricoltura in gran parte di mezzadria, la Riforma Agraria ha aperto uno spiraglio per l'emancipazione di gente che se la passava male. Io venivo da una famiglia modesta, mio papà faceva il sarto di campagna e contava molto sul mio diploma per dare una mano in casa. Della guerra mi è rimasta impressa la ritirata tedesca che ci ha costretto a sfollare per sfuggire alle rappresaglie. Poi Pippo l'aereo alleato che arrivava di notte, vedevamo da lontano gli effetti dei bombardamenti su Padova e Mestre, i bagliori delle esplosioni».
Dopo l'alluvione, altri spostamenti per lavoro?
«A Cittadella dove sono rimasto sei anni e ho trovato un altro mondo. L'industrializzazione incominciava ad arrivare timidamente; le prime vere industrie, come le Officine Marchiorello, sono partite allora. Dopo sono arrivato a ruoli dirigenziali e nel 1977 sono stato nominato direttore generale, a quel tempo la Cariparo aveva la direzione generale a Padova e due sedi provinciali che erano il retaggio delle fusioni tra Ottocento e Novecento. A Padova il mercato del credito era governato per il 40 per cento dalla Cariparo, le banche locali sono state determinanti per lo sviluppo del territorio che registrava una crescita esplosiva. La banca locale raccoglieva in gran parte la forte spinta al risparmio della regione, la Cariparo era al sesto posto nazionale in una classifica che veniva costruita sulle masse amministrate. Quella di popolo di risparmiatori penso sia la nostra indole, il frutto del nostro secolare spirito di previdenza. Nel Veneto questa indole è anche più accentuata».
Perché l'hanno chiamata il Cuccia del Veneto?
«Troppo forte l'espressione. Forse hanno detto così per il tempo e per le cariche, forse guardando a quanto fatto in questi anni con Cariparo e Fondazione, forse per l'azione di Cardine - che era un nome di fantasia - che riuniva un po' di Veneto e un po' d'Emilia e dal quale sarebbe nato San Paolo-Imi».
Quando è crollata la fiducia dei veneti nelle banche?
«Una banca locale era molto vicina al territorio e il rapporto col cliente era immediato. Lo sviluppo dell'economia a un certo punto ha richiesto strutture che andavano oltre la banca locale e ci sono stati istituti che non si sono adeguati anche solo per un atteggiamento di conservazione: questo ha provocato rallentamenti e ritardi enormi e anche sfiducia. Certe Popolari, e non solo in Veneto, hanno qualche responsabilità in più. Oggi esiste una clientela vasta molto delusa dal dissesto di alcune banche nelle quali la gente aveva creduto. Certe banche con un meccanismo ben conosciuto - bastava l'assemblea dei soci - stabilivano da sole il valore del proprio titolo. Quando il meccanismo si è inceppato hanno incredibilmente pagato i risparmiatori che erano stati trasformati quasi tutti in soci».
Che tempi viviamo?
«Dal 2008 la grande crisi mondiale ha toccato anche il Veneto. Il mondo delle costruzioni ha molto pesato sul sistema bancario che ha assecondato quel settore anche oltre i limiti. Anche il potere pubblico non ha fatto niente, perché non si costruisce se non ci sono le concessioni edilizie! Sono un po' deluso e preoccupato. Ho avuto il piacere di vedere una storia di successo legata allo spirito del dopoguerra, alla ricostruzione: è nato un benessere che forse ha portato a viziarci un po'. Ora ci confrontiamo con la cosiddetta normalità che comporta enormi problemi. Un Paese può anche crescere facendo debiti, ma devono essere proporzionati alla capacità di ripagarli. Soprattutto: il risparmio degli italiani non si deve toccare».
Uno sguardo sul Veneto di oggi
«Il Veneto ha la capacità per superare questo momento. Forse i veneti parlano meno, sono meno appariscenti, però lavorano. Anche nelle recenti vicende legate al maltempo in Cadore si è visto: più che dei danni si è parlato di come impegnarsi immediatamente per non far saltare la stagione sciistica. Che è un modo di guardare subito avanti. È importante non isolarsi; è importante la solidarietà e l'abbiamo visto nel Veneto soprattutto nel momento più acuto della crisi per aiutare gente che aveva perso il lavoro e non aveva mezzi. Noi come Fondazione con 30 milioni di euro abbiamo dato vita a un fondo di solidarietà con la Caritas. Le esigenze restano, certo meno drammatiche rispetto a quelle degli anni scorsi».
Lauree ad honorem, cittadinanze onorarie: si aspettava tanti riconoscimenti?
«Il territorio ha voluto ricambiare, mi hanno commosso, mi sono sentito gratificato. La cittadinanza di Adria, l'ultima in ordine di tempo, è la conclusione di un percorso di vita. Così come quando il consiglio generale della Fondazione ha voluto riconoscermi come Presidente Emerito. Col presidente Gilberto Muraro mi sento utile e posso continuare a lavorare ogni giorno».
Si sogna anche a 90 anni?
«Credo che l'uomo debba sempre sognare. Io sono fiducioso nella vita, sono sempre speranzoso che domani sia meglio dell'oggi. Forse ho poca dimestichezza con i nuovi mezzi di comunicazione, ma ho tempo per imparare».
Edoardo Pittalis
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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