L'INTERVISTA
«L'avverto subito che io leggo nel pensiero: lei vuole chiedermi

Lunedì 16 Ottobre 2017
L'INTERVISTA
«L'avverto subito che io leggo nel pensiero: lei vuole chiedermi quanti anni ho. Non lo sa che i maghi non hanno età? Essere giovani non significa avere vent'anni, ma riconoscere in ogni momento le emozioni dettate dal cuore. Un'altra cosa vorrei dire subito: mi dispiace non poter essere a Capodanno a Venezia, al Teatro Goldoni, con il mio spettacolo La Grande Magia. Sarò impegnato per un mese al Teatro Olimpico di Roma con Maurizio Battista. Aldo Savoldello in arte Silvan mostra di divertirsi come un bambino. Sa cosa diceva Mark Twain? Che non si smette di giocare perché si diventa vecchi, si diventa vecchi quando si smette di giocare. E' forse il mago più famoso del mondo, due Oscar della magia, unico non americano. Autore di 13 libri e anche di un'enciclopedia sulla magia.
Silvan, il padre la voleva avvocato e lei ha fatto il mago.
«Ero un ragazzino vivace e spensierato, con sei fratelli e tanti amici con i quali giocavo in Campiello delle Strope nel sestiere di Santa Croce. Sono nato nella casa dello scrittore Gasparo Gozzi, in un appartamento al piano nobile. La casa era vuota da anni poichè correva voce che fosse abitata dagli spiriti. Mio padre non aveva paura e l'affittò a buon prezzo».
Come era essere bambini in quella Venezia degli Anni Quaranta?
«Splendido. Era il mio Campiello con al centro il pozzo, Bondi caro campieo no ti xe stà ne bruto ne beo come dice la melodia del Campiello di Wolf Ferrari. Ogni giorno incontravo un pittore che è poi diventato famoso, Emilio Vedova. Alto, magro, ossuto, con una folta barba nera e il volto scavato sotto una scomposta capigliatura .Quando attraversava il campiello a noi ragazzi incuteva soggezione e paura e non parlava mai con nessuno. Spesso ci recavamo a giocare in campo Nazario Sauro, con al centro un manicotto di cemento armato che era il rifugio antiaereo. Nei giochi, lo dico in veneziano, del Pindolo, Kiba Keba, Taco e biglie di terracotta ci misuravamo con le bande di ragazzi del Campo San Giacomo dell'Orio».
Come erano i fratelli Savoldello?
Tutte persone stupende. Bruno, il maggiore, che adesso non c'è più, era un piccolo genio: con una scatola di compensato segata col traforo realizzò una cabina di proiezione, con un elaborato congegno meccanico e le lenti di un vecchio binocolo di mio padre. Ritagliavamo le strisce dei fumetti di Gim Toro, Cino&Franco, Mandrake e, incollandole una all'altra come fotogrammi di una pellicola cartacea, facevamo il nostro film sul lenzuolo».
Tutti artisti in famiglia?
«Mio padre aveva vinto un concorso come sosia di Rodolfo Valentino e rifiutò l'invito di recarsi a Hollywood. A casa si ascoltava spesso musica operistica, ricordo i 78 giri che mio padre spolverava prima di posarli sul grammofono custodito in un mobiletto di radica. Era un maresciallo dei vigili urbani e capo dell'Ufficio comando della Sezione lagunare. Appassionato del melodramma, ci faceva entrare alla Fenice: ci faceva affacciare dal palco reale e ci spiegava a bassa voce la trama delle opere».
Come ha scoperto la magia?
«La famiglia durante le vacanze di divideva tra la spiaggia del Lido e Crespano del Grappa e fu proprio qui che a sette anni vidi per la prima volta un prestigiatore: una folgorazione. Da chierichetto, nella parrocchia di San Simeone Piccolo, rispondevo in latino ma non vedevo l'ora di celebrare i funerali... La cerimonia mi dava modo di pensare quasi alla magia: tenevo tra le mani il turibolo e lo sollevavo facendolo oscillare, producendo nuvole dense di fumo bianco. Di proposito, anzichè usare due cucchiaini di incenso, ne versavo cinque. Aldo ti gà messo tropo incenso, ti ne gà infumegà tuti, ostrega!, alzava la voce il parroco in sagrestia».
La prima volta sul palcoscenico del teatro parrocchiale?
«Tutto è incominciato all'oratorio Don Bosco. Ma don Oreste se lo aspettava, perché vedeva come rimanevo affascinato dai suoi racconti biblici: Mosè e la spartizione delle acque, la storia della trasformazione del bastone in serpente. Una volta in un campiello dove si girava il fim Otello, con i miei giochi ho stupito il grande Orson Welles. Soltanto anni dopo l'attore, che aveva detto che il suo mago preferito era Silvan, ha scoperto che io ero lo stesso bambino che lo aveva incantato a Venezia».
E a scuola come andava?
«Molto bene. Un fatto divertente accadde in prima media: con il braccio nascosto sotto il banco manipolavo delle carte da gioco fra le dita. Le facevo ruotare davanti e dietro il palmo, creando alla spalla un movimento rotatorio sospetto, tanto che il professore immaginando chissà quali godimenti peccaminosi mi disse: Savoldello queste cose non si fanno a scuola! e mi mandò fuori. Si ricredette quando mostrai le carte che sparivano e apparivano dalle mie mani».
Quando Savoldello è diventato Silvan?
«All'inizio mi facevo chiamare Saghibù, poi nella trasmissione televisiva Primo Applauso condotta da Enzo Tortora, davanti a 15 milioni di telespettatori, la bellissima Silvana Pampanini mi battezzò Silvan, un nome che mi ha portato fortuna. Mi sono esibito davanti a Presidenti, sovrani e Papi».
Nel tempo di Harry Potter la magia è cambiata?
«Provi Harry Potter a manipolare 140 carte con una sola mano. Quello sì che è difficile! Ma attenzione a confondere la magia con i miracoli. O con i trucchi tv manipolati in post produzione, oggi alla moda ma improponibili in teatro. Oggi la magia è intesa come prestidigitazione, l'illusionista stupisce e intrattiene onestamente».
E lei stupisce ancora?
«Certamente. Sul piano visivo e concettuale la magia ha sempre esercitato molto fascino. Un collega di 4500 fa si esibiva davanti al faraone Cheope: tagliava la testa a due oche, una bianca e una nera, poi faceva starnazzare via l'oca bianca con la testa nera e la nera con la testa bianca. Oggi nel mio spettacolo eseguo qualcosa di simile con due splendide ragazze».
Il segreto della sua longevità artistica?
«Le soddisfazioni quotidiane, le richieste incessanti di spettacoli, miei figli Sara e Stefano e due meravigliosi nipoti, mia moglie Irene. Mi ritengo un uomo fortunato e felice».
Edoardo Pittalis
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