L'INTERVISTA
Claudio Baglioni da stasera e per tre concerti di fila sarà

Venerdì 16 Novembre 2018
L'INTERVISTA
Claudio Baglioni da stasera e per tre concerti di fila sarà alla Kioene Arena di Padova (qualche biglietto ancora alla cassa per la data di domenica).
Baglioni, il suo tour celebra 50 anni di una carriera che in verità andrebbe retrodatata. L'inizio fu su una sedia per Una casetta in Canada a quattro anni. Come ne usciamo?
«Per dirla col linguaggio del cinema, quello fu il prequel. Papà, annunciami che devo cantare, dissi. Salii sulla sedia e cantai. Fu il mio Big Bang. E, come per il Big Bang quello vero, è impossibile dire cosa lo generò e perché. Sentivo di doverlo fare, e l'ho fatto. E continuerò a farlo fino a quando sentirò che salire su quella sedia ha un senso e un valore per me e per chi decide di mettere la sua sedia accanto alla mia. Parafrasando Novecento, direi: Non sei fregato veramente finché hai da parte una buona canzone, e qualcuno a cui cantarla. E, per mia fortuna, le belle canzoni non si sono ancora stancate di venire a farmi visita».
 In questo spettacolo colpisce oltre alla dimensione kolossal la contaminazione di generi. Lei voleva essere un grande mago. Pensa di esserci riuscito?
«Credo che la magia di cui lei parla nasca nell'istante nel quale riesci a trasformare in melodia una manciata di note. È il piccolo miracolo della canzone. A quel punto, le note chiamano i suoni, i suoni, le parole, le parole, le immagini e ti ritrovi al centro di una galassia piena di stelle e pianeti che ruota intorno a te. Tu la vedi e cerchi di darle forma perché la possano vedere anche gli altri. Solo allora si compie la vera magia. Perché ciò che è veramente magico è l'incontro tra chi dà e chi riceve. Uno scambio continuo, nel quale attori e spettatori diventano gli uni maghi per gli altri, innescando un cortocircuito e un crescendo di emozioni che non può nascere in assenza di quell'incontro».
Quale definizione di Al Centro le piace di più? Del mirino? Della musica o  della vita come ebbe a dire nell'85?
«Dei pensieri, direi. Credo che vivere nei pensieri di così tante persone per così tanto tempo sia un privilegio immenso. Immenso e molto più raro dell'allineamento dei pianeti. Tutto quello che faccio è per cercare di essere degno di questa straordinaria ospitalità, e provare a restituire almeno una piccola parte di ciò che mi trasmette questa fortissima emozione».
Lei inaugurò per la prima volta la rottura del fronte palco nel 91.  Ricordiamo le sue passeggiate fra il pubblico sugli spalti, con la chitarra. Che cosa ama di più di questa soluzione? La condi-visione totale?
«Condi-visione totale è un'ottima sintesi. La musica unisce: farla rimanendo divisi sarebbe un controsenso. L'idea, quindi, è quella di ridurre al minimo le distanze, cercando di annullarle ogni volta che è possibile. Senza contare che il palco al centro permette a tutti di vedere e, soprattutto, sentire molto meglio, perché l'amplificazione può essere distribuita in modo più capillare ed equilibrato, puntando alla qualità dei suoni più che alla quantità dei volumi. Lo spazio scenico, inoltre, aumenta sensibilmente e diventa parte integrante dello spettacolo, come luci, proiezioni, suoni, performer e musicisti».
L'idea di seguire un percorso cronologico bruciando alcune delle hit più famose a inizio concerto è uno dei rischi più alti che un artista possa prendere. Ne nasce una narrazione atipica, da romanzo musicale. Che bilancio fa delle reazioni del pubblico?
«Sorprendenti. È vero: il romanzo musicale è una narrazione atipica. Solo per il live, però. Credo di essere il primo in assoluto ad aver adottato una scaletta cronologica, anche perché, se non altro per anzianità di servizio, non sono tanti quelli che hanno una così lunga storia di canzoni da raccontare. Pochi lo ricordano ma Questo piccolo grande amore l'album, non il singolo era esattamente questo: il racconto del primo amore, dal prologo all'epilogo. Tanto che, all'inizio, avrebbe dovuto essere un musical. Molti dei miei dischi e anche dei miei progetti live sono stati dei concept, perché ho sempre amato legare le canzoni con il filo rosso di una storia o di un contenuto narrativo. Il fatto di ritrovarmi a raccontare questi miei 50 anni di vita con e nella musica, mi ha offerto un'occasione irripetibile: raccontare una storia senza doverla inventare: la mia. Potevo lasciarmela sfuggire?»
Sanremo bis significa che il dittatore artistico torna sempre sul luogo del comando?
«Ho deciso di raddoppiare. Triplicare, anzi, dal momento che a dicembre ci sarà Sanremo Giovani: un'intera settimana di tv, radio e web, per la prima volta, interamente dedicata ai giovani. Fra l'altro nelle audizioni il livello è molto interessante. La musica è in buona salute. E a condurlo saranno due fenomeni social, Rovazzi e Baudo. Credo che il fascino di un'impresa sia sempre proporzionale al rischio: più grande lui, più grande lei. E io non mi sono mai tirato indietro di fronte a una sfida. Anche perché penso che l'unico modo di meritare tanta fortuna sia quello di rimettersi in gioco e continuare a confrontarsi con lei. Non mi interessa semplicemente un nuovo Sanremo: mi interessa un Sanremo nuovo, il più interessante e avvincente possibile. Raddoppio ma non replico. Rimettersi in gioco non basta: bisogna anche alzare la posta e provare a stabilire nuovi record. Non è detto che ci riesca. Ma el'unico modo per rendere la sfida interessante. E anche la nostra vita».
Si sente nazionalpopolare? E se sì ha capito che cosa significa?
«Chi fa musica pop è popolare per definizione. Un musicista, però, pur avendo una nazionalità e amandola, è inevitabilmente figlio del mondo, dal momento che si esprime in una lingua, la musica, appunto, che non ha nazionalità, visto che vive nella patria più grande che si possa immaginare: il pianeta. Una lingua universale, che tutti capiscono anche quelli che non la conoscono e non la parlano e tutti amano. È la musica il primo, il più grande è il più bel social network della storia. L'unico al quale gli esseri umani non rinunceranno mai. Ed è un privilegio esserne parte».
Lei ha interpretato internet in un modo singolare, scrivendo lettere via social (Inter nos) che non siano necessariamente brevi. Perché procede in direzione ostinata e contraria?
«Non so se sia ostinata e contraria: so che è la mia. Direzione che ho seguito anche con una seconda raccolta di post': Non smettere di trasmettere, pubblicata poco più di un anno fa da La Nave di Teseo. Ho i miei pensieri, il mio linguaggio e i miei tempi. La gente mi ha seguito in tutti questi anni per come sono. Se avesse cercato qualcosa di diverso, non sarei arrivato a festeggiare le nozze d'oro con la musica, circondato dalla passione e dall'affetto di così tante persone. Dunque perché dovrei cambiare? Io sono sempre io, conta l'autenticità. A giudicare da come sono andate le cose, direi che paga».
 Quando vedremo il nuovo disco? E quale gradino le manca per arrivare sulla cima della sua aspirazione artistica? Un musical?
«Chissà. Il mio primo progetto discografico importante avrebbe dovuto essere un musical. E non è detto che non sarà un musical a chiudere il cerchio. Never say never. Il prossimo album, però, è già in cantiere. Al centro e Sanremo hanno rallentato, non bloccato i lavori. E poi le idee non vanno mai in vacanza, e viaggiano sempre con me: il nostro è un dialogo quotidiano che va avanti da cinquant'anni e che non sarò certo io a interrompere. Come diceva Picasso: l'ispirazione esiste ma ti deve trovare al lavoro ed è proprio per questo che lavoro così tanto: in modo che mi possa trovare sempre pronto».
Mauro Giacon
© RIPRODUZIONE RISERVATA 
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