«Io, torero della lirica da 50 anni»

Domenica 15 Luglio 2018
IL PERSONAGGIO
C'è chi deve dimostrare il proprio coraggio dentro un'arena. E chi nella vita, quando dall'empireo della fama una terribile malattia rischia di non concedere chance ulteriori. Josè Carreras ha vissuto tutto: la gloria del palcoscenico, l'angoscia del male e la rinascita. Ha sconfitto la leucemia, si è ripreso la sua porzione di successo. E oggi, a 72 anni non ritiene di dire ancora la parola fine. «Sono come i toreri: ogni anno potrebbe essere l'ultimo, ma intanto continuo la mia danza». Il tempo gli ha lasciato in dono un'eleganza che neppure il male ha scalfito. Una signorilità d'altri tempi, insieme al temperamento catalano e a quella erre arrotata, l'occhio mobile e l'italiano impeccabile. «Amo Verona, Venezia ed anche Treviso». E il tenore mette insieme la geografia perfetta di quel Nordest musicale celebre in tutto il mondo. Carreras si è raccontato con intensità ieri a Opera in Piazza ad Oderzo, dove ha ricevuto dalle mani di Mariagrazia Patella e Miro Solman il premio alla carriera Giuseppe Di Stefano. «Ho abbracciato il soprano Maria Chiara, gloria italiana della lirica nata ad Oderzo, e Adua Veroni, prima moglie di Luciano Pavarotti». E, nel libro dei ricordi, non dimentica Katia Ricciarelli, con cui ebbe una lunga e tormentata liaison.
È molto bello da parte sua volare da Barcellona per ricevere un premio su questo palcoscenico.
«Non credo esistano sale di serie A o di serie B, esiste il pubblico per cui io ho grandissimo rispetto. Ritirare un premio intitolato a Di Stefano è poi importante. Io sono cresciuto con i suoi dischi, e ascolto ancora quasi ogni giorno la sua voce per le soddisfazioni intime che mi dà».
A Verona, ha cantato nel 2017 per ricordare Big Luciano. E tutto il pubblico si è alzato in piedi per lei.
«L'Arena regala sempre emozioni. Ho voluto rendere omaggio ad un'amicizia di lunghissima data. Ho conosciuto Luciano nel 1970, lui faceva la Bohème ed era già il grande Pavarotti. Io debuttavo. La nostra amicizia si è cementata soprattutto a New York, negli anni in cui cantavamo al Met. Era un uomo che, indipendentemente dalla sua straordinaria qualità vocale, aveva il pregio di tenere tutti coi piedi per terra. Parlavamo poco di lirica, ci accendevamo tantissimo per il calcio, lui juventino e io tifoso del Barça».
Come legge, dopo molti anni, l'operazione dei Tre tenori? «Fu un'esperienza importantissima per far amare la lirica al grande pubblico. Un'operazione speciale e, credo, unica».
Treviso è la patria di elezione di Mario Del Monaco. Esiste la competizione tra tenori?
«Ho avuto il piacere di incontrarlo un paio di volte, era un uomo di rara eleganza. Nessuna competizione: non penso che sia esistita, per un certo repertorio, una voce più importante di quella di Del Monaco. Il bronzo e la determinazione nel canto ne hanno fatto un artista eccezionale».
Nel 1975 avviene il suo grande debutto alla Scala. Ritiene che sia ancora il più grande teatro del mondo?
«Si. Ha un sapore speciale la Scala, ogni volta che metti il piede sul palcoscenico ti tremano le vene ai polsi. E una prima alla Scala è una grande responsabilità per tutti, dalla signora delle pulizie al direttore d'orchestra. Non esiste la routine alla Scala. Per questo mi piace».
Qual è la sua opera del cuore? «Placido Domingo dava una risposta arguta a questo proposito. Diceva: lei non mi può chiedere quale è il mio figlio preferito. Però è vero che ognuno di noi ha una debolezza per un personaggio. Io ne amo quattro in particolare: Rodolfo, Don Josè, Andrea Chenier e Ballo in Maschera».
Lei ha spesso ricordato il suo rapporto di stima con Claudio Abbado. Ma il direttore che l'ha plasmata davvero è stato Herbert von Karajan.
«Ho avuto la fortuna di lavorare con lui per quindici anni a Vienna e a Salisburgo. Era un musicista incredibile. E un incredibile stakanovista: il primo ad arrivare e l'ultimo ad andare via».
A Venezia nel 2012, durante la Cavalchina, con Katia Ricciarelli avete stupito tutti salendo sul palcoscenico e cantando A vucchella. Siete consapevoli di aver fatto sognare le platee del mondo?
«Katia è stata una stupenda collega, abbiamo cantato tanto insieme e, sì, abbiamo vissuto il palcoscenico con un po' più di intensità che con altri colleghi. Eravamo giovani, nel momento vocale migliore. La ricordo sempre con grandissimo affetto».
Aveva annunciato, dopo i settant'anni festeggiati a Tokyo nel 2016, il ritiro dalle scene nel 2018. È così?
«Ho iniziato nel 1970 e nel 2020 sarebbero cinquant'anni di carriera. Quella davvero potrebbe essere la perfetta chiusura del cerchio. L'ho detto: sono come i toreri!».
Elena Filini
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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